LA DELUSIONE
« Oggi c’è proprio aria di neve ». Simile a un mantra, la maestra, di tanto in tanto, ripeteva queste parole e i bambini allungavano gli sguardi oltre i finestroni, verso quel cielo grigio, basso, pieno di malinconia: «Eh, sì, verrà la neve», e per dar maggior forza al pensiero e alla parola, spiegò ben bene cosa fosse la neve: gioco per i piccoli, allegria, magia per la natura, utilità per l’aria che si purificava e, per i campi, un vero tesoro perché, concluse, «sotto la neve c’è pane». Mentre i compagni, seguendo l’invito dell’insegnante, cercavano di raccontare la neve chi con disegni, chi con pensierini o piccole poesiole, egli si smarrì perché lui, la neve, non la conosceva. Quando suonò la campanella per la fine delle lezioni, impaziente, spintonando i compagni, scese di corsa le due rampe di scale, certo di trovarsela lì quella neve benedetta, di vederla, toccarla finalmente, ma ilmarciapiede era umido, grigio, scivoloso come lo aveva lasciato al mattino, entrando a scuola. Restò deluso e, voltando le spalle al paese, anonimo, si avviò verso casa. Il cielo si curvava su di lui vuoto di voli, triste, pesante come piombo fuso, bracca- to da barriere di nuvole che ne bevevano la poca luce. Erano nuvole che si sfilacciavano, si ricomponevano, tornavano a disfarsi come fiori appassiti sotto l’urto del vento e facevano crescere in lui, che le seguiva con lo sguardo, un’ansia, una curiosità come quando si è in attesa di una sorpresa. Era la stessa sensazione che aveva provato qualchemese addietro, quandoinuna serapiena di riverberi d’oro, i suoi genitori, attorno al tremolio di una lucerna, lo informarono che sarebbero partiti quella stessa notte e attraversando il mare, avrebbero raggiunto unaltroPaese, unaltracasa, un’altra vita...
Fuori, l’harmattan, soffiava rauco tra le gole e i vicoli, circondava la capanna di fango e sollevava mulinelli di sabbia, piccoli vortici che si infilavano ovunque, faceva cantare le dune, distorceva il tam tam dei bongos che suonavano in fondoal villaggio, ma lui, che pure amava quel vento freddo e pungente, non uscì dalla capanna. Mille perché gli fiorirono dal cuore, ma subito appassironosulle labbrapoiché nessuno si curava di lui: lamadre, nell’ombra, racimolava poche cose, le chiudeva in un telo, il padre, cupo e silenzioso, scavava un angolo delpavimento, cercava il loro piccolo tesoro, lo allontanava. Allora si coricò, ma quelle curiosità inascoltate che affioravano con insistenza lo tennero sveglio. «Perché mai partire? E dove sarebbero andati? Con chi? E il mare? Com’era il mare, di quale colore? Era grande come il deserto? E l’acqua, come mai non invadeva la terra se era sempre in movimento?». Lui aveva sentito parlaredi unmare rosso, ma l’acqua nonera rossa. E tutti quei perché, quelle ansie, se le ritrovò tutte lì, quando in piena notte lo svegliarono. Non pianse lasciando il villaggiodi fangoepaglia. Non pianse pensando agli amici che non avrebbe rivisto più. Di tanto in tanto, fissava la luna che dilagava in un cielo punteggiato da milioni di stelle, tremolanti come le lacrime che brillavano sul viso della madre, ascoltava il grande silenzio ferito dai mille oscuri gemiti della savana e cercava di camminare svelto con la forza dei suoi sette anni. Non pianse neppure davanti almare: tale fu lo stupore, lameraviglia che ne rimase impietrito, la manina stretta in quella del padre. Non osava allontanarsi da lui neppure per toccare le onde che non si fermavano mai e si arricciavanobianche e rumorose sulla spiaggia, ricamandola con strascichi di luce. Non pianse quando il barcone, oscillando sotto l’urto di acque inquiete e di un vento rabbioso, lo impauriva: allora affondava il capo ricciuto nel fianco della madre, serrava gli occhi feriti dalla luce violenta e si stringeva a lei.Neppure in quella casa strana, umida e solitaria, pianse; seduto accanto alla finestra guardava le macchine, tante macchine, sfrecciare rumorose, le case così alte che foravano le nubi, le luci intermittenti di un semaforo dispettoso, ma in realtà pensava al suo villaggio tra le dune dove, non lo capiva ancora, aveva lasciato tanti pezzi di cuore. Pensava ai datteri gonfi di zucchero e di sole, alle piste rosse che il tramonto rende-
ERA STATOI L PASSO LIEVE DEL PADRE A SVEGLIARLO, M AERA STATA UNA LUCE INNATURALE, BIANCASTRA E LUMINOSA A CHIAMARLO ALLA FINESTRA
va d’oro, alla libertà di una vita che per lui era solo felicità. Asera, quando il padre, sfinito e silenzioso, tornava con i borsoni stracolmi di oggettini invenduti, si sentiva il cuore pesante di tristezza, propriocomeadessoche stavaritornandoacasada scuola, e non aveva visto neppure la neve. Fu lì che trovò la solita stufa cocciuta che non voleva accendersi e riempiva la piccola stanza di fumo, suamadrechina suunacena cosi povera che egli si sentì fortunatod’avermangiatoun buonissimo pasto a scuola. Anche lamerenda con pane e marmellata era stata ottima, abbondante, e che sorriso aveva fatto ai due compagni che, di nascosto dalla maestra, gli avevano passato la loro porzione di cibo!
Fu alle prime luci dell’alba che si destò. Era stato il passo lieve del padre, uscito molto presto con i suoi borsoni, a svegliarlo ma era stata una luce innaturale, biancastra, luminosa, strana a chiamarlo alla finestra. Guardò incuriositoequanta fu lameraviglia! Quanta! Un manto immacolato aveva cambiato aspetto ad ogni cosa: strade, siepi, prato non c’erano più. Persino il semaforo aveva un cappuccetto bianco e i rami degli alberi, addirittura, si incurvavano sotto il peso di quel candore. Eccola la neve! Era proprio lei ed era come l’aveva descritta la maestra. Era arrivata! Guardò e guardò, poiall’improvviso ricordò le parole dellamaestra, parole che aveva ritrovato anche sul suolibrodi lettura... Allora, piano, trattenendo anche il respiro, in qualche modo si vestì e uscì. Tutto taceva. Nonun cinguettio, una voce, un tonfo rompeva la magia di quell’alba più luminosa di un mattino. Il piccolo alzò il viso per meglio vedere le farfalline bianche che, allegre, danzavano, sospinte da un vento gelido. E cercando di afferrarle, sorrise, gli occhi pieni di stupore, il cuore pieno di incanto. Accanto alla casa, ieri c’era un fazzoletto di prato ma ora non lo trovò più: la neve ne aveva cancellato i confini ma, cauto, cercò di localizzarlo, entrò pian piano, e pieno di speranza si inginocchiò. Con le manine cominciò a rimuovere lo strato di neve e il cuoricinogli batteva di speranza mentre le parole della maestra erano diventateunrombonella suamente: «Sotto la neve pane, sotto la neve pane». Che bellezza! Avrebbe potuto portarnetanto incasa, avrebbe fatto una bella provvista per la sua famigliola... Sarebbe stato buono, fragrante come quello che mangiava a scuola? Mah... intanto smosse pian piano il manto nevoso e, rovistando, arrivò a toccare l’erba che il gelo aveva bruciato, la terra dura, ma del pane nessuna traccia. Eppure lui le ricordava quelle parole, le aveva ben capite e la maestra non poteva mentire. Scavò ancora, un po’ qua un po’ là; un gelo intensosalivadaipiedini alla gola e le mani, rosse, rigide, gli martellavano e, davvero, il pane, non c’era, non c’era. Nessuna voce. Nessuna persona attorno; il lume pallido di un lampione rischiarava un silenzio profondo, allungava la sua ombra sul candore diventatogli ostile. C’era solo lui, piccolo, indifeso, infreddolito. Lui e la sua delusione: fu solo allora che pianse.