EDITORIALE
NEL PAESE DELLA LAMENTELA PERENNE, POCHI FANNO QUALCOSA PER CAMBIARE LE COSE
Qualche settimana fa Papa Francesco ne ha fatta un’altra delle sue. Ha appeso sulla porta dell’appartamento dove vive, inVaticano, un cartello con la scritta «Vietato lamentarsi». Il cartello gliel’aveva regalato lo psicologo e psicoterapeuta Salvo Noè. A Francesco è piaciuto così tanto che non ci ha pensato due volte e l’ha fatto suo, immagino con il sorriso sornione di chi si diverte un sacco.
Il divieto di lamentela, infatti, prevede anche pene severissime: «I trasgressori sono soggetti a una sindrome da vittimismo, con conseguente abbassamento del tono dell’umore e della capacità di risolvere i problemi. La sanzione è raddoppiata qualora la violazione sia commessa in presenza di bambini. Per diventare il meglio di sé bisogna concentrarsi sulle proprie potenzialità e non sui propri limiti. Quindi: smettila di lamentarti e agisci per cambiare in meglio la tua vita». Di fatto, un inno alla fiducia in se stessi. Un modo di pensare e di intendere le cose che curiosamente (ma forse non tanto) fa il paio con «la parola d’ordine di ogni comunista», lanciata un secolo fa da Antonio Gramsci: «Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà».
Già. A volte, guardandoci intorno o riflettendo sui nostri piccoli o grandi guai quotidiani, sembra di vivere nel Paese della lamentela perenne. Io ho un caro amico che alla solita domanda «Come stai?» risponde invariabilmente, e con voce squillante: «Benissimo!». Presumo che non sia del tutto vero, o perlomeno non sempre: avrà anche lui litigato con la moglie, avrà un figlio, un parente o un socio che gli dà dei grattacapi, un affare andato male, un acciacco, una preoccupazione… Certo che li avrà. Però risponde sempre: «Benissimo!». Ed è una mosca bianca, perché le risposte più in voga sono normalmente di tutt’altro tenore: «Abbastanza bene», quando uno non vuole sbilanciarsi troppo, non sia mai che susciti invidia nell’interlocutore; «Tutto ok», per tagliarla corta; «Eh insomma, si tira avanti», «Si vivac- chia», «Potrebbe andare peggio», sono altre risposte standard. E se proprio si vuol far capire che la vita è faticosa ci soccorre il sempiterno «Cosa vuoi, si combatte!».
Sono lamentele mascherate. Di quelle plateali, invece, si perde il conto. Ci lamentiamo di tutto e di tutti: dei migranti, dei politici al governo e di quelli all’opposizione, dei magistrati, dei giornalisti (ovvio), dei medici, degli avvocati, degli idraulici e dei tranvieri. E poi dello stipendio, della pensione, dell’orario di lavoro, dell’afa estiva e della pioggia inattesa, del caro prezzi, delle code in macchina e allo sportello, dei treni in cui fa troppo caldo o troppo freddo, del vicino rumoroso e del partner silenzioso, del Canone Rai e degli spot pubblicitari, degli ombrelloni troppo ravvicinati e del bar troppo lontano, del farmacista che esige la ricetta e del cliente che pretende la fattura. Si borbotta tra colleghi, ci si lamenta con i capi, si scrivono lettere ai giornali, si va in tv per gridare che così non va.
Esi fanno i paragoni. Con quello che guadagna di più o lavora meno («È sempre in ferie!»), ha la casa almare o la barca, ha avuto successo, o anche solo salta la coda alle Poste perché è correntista… Sì, perché la lamentela va di pari passo con l’invidia e, come è scritto nel cartello di Papa Francesco, con il vittimismo. Che spesso è cosmico e nutrito di luoghi comuni su come si sta meglio inGermania, in Francia, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti del super-vituperato Donald Trump. Il risultato è che ci si adagia, si dà la colpa al mondo, ci si piange addosso e non si fa assolutamente nulla per cominciare, passo dopo passo, a cambiare lo stato delle cose. Canta Jovanotti nella canzone Fango: «Ti guardi intorno e non c’è niente: un mondo vecchio che sta insieme solo grazie a quelli che hanno il coraggio di innamorarsi. E una musica che pompa sangue nelle vene e che fa venire voglia di svegliarsi e di alzarsi. E smettere di lamentarsi». Ecco qua: smettere di lamentarsi. Sarebbe un buon inizio.