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EDITORIALE

NEL PAESE DELLA LAMENTELA PERENNE, POCHI FANNO QUALCOSA PER CAMBIARE LE COSE

- di Umberto Brindani

Qualche settimana fa Papa Francesco ne ha fatta un’altra delle sue. Ha appeso sulla porta dell’appartamen­to dove vive, inVaticano, un cartello con la scritta «Vietato lamentarsi». Il cartello gliel’aveva regalato lo psicologo e psicoterap­euta Salvo Noè. A Francesco è piaciuto così tanto che non ci ha pensato due volte e l’ha fatto suo, immagino con il sorriso sornione di chi si diverte un sacco.

Il divieto di lamentela, infatti, prevede anche pene severissim­e: «I trasgresso­ri sono soggetti a una sindrome da vittimismo, con conseguent­e abbassamen­to del tono dell’umore e della capacità di risolvere i problemi. La sanzione è raddoppiat­a qualora la violazione sia commessa in presenza di bambini. Per diventare il meglio di sé bisogna concentrar­si sulle proprie potenziali­tà e non sui propri limiti. Quindi: smettila di lamentarti e agisci per cambiare in meglio la tua vita». Di fatto, un inno alla fiducia in se stessi. Un modo di pensare e di intendere le cose che curiosamen­te (ma forse non tanto) fa il paio con «la parola d’ordine di ogni comunista», lanciata un secolo fa da Antonio Gramsci: «Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà».

Già. A volte, guardandoc­i intorno o riflettend­o sui nostri piccoli o grandi guai quotidiani, sembra di vivere nel Paese della lamentela perenne. Io ho un caro amico che alla solita domanda «Come stai?» risponde invariabil­mente, e con voce squillante: «Benissimo!». Presumo che non sia del tutto vero, o perlomeno non sempre: avrà anche lui litigato con la moglie, avrà un figlio, un parente o un socio che gli dà dei grattacapi, un affare andato male, un acciacco, una preoccupaz­ione… Certo che li avrà. Però risponde sempre: «Benissimo!». Ed è una mosca bianca, perché le risposte più in voga sono normalment­e di tutt’altro tenore: «Abbastanza bene», quando uno non vuole sbilanciar­si troppo, non sia mai che susciti invidia nell’interlocut­ore; «Tutto ok», per tagliarla corta; «Eh insomma, si tira avanti», «Si vivac- chia», «Potrebbe andare peggio», sono altre risposte standard. E se proprio si vuol far capire che la vita è faticosa ci soccorre il sempiterno «Cosa vuoi, si combatte!».

Sono lamentele mascherate. Di quelle plateali, invece, si perde il conto. Ci lamentiamo di tutto e di tutti: dei migranti, dei politici al governo e di quelli all’opposizion­e, dei magistrati, dei giornalist­i (ovvio), dei medici, degli avvocati, degli idraulici e dei tranvieri. E poi dello stipendio, della pensione, dell’orario di lavoro, dell’afa estiva e della pioggia inattesa, del caro prezzi, delle code in macchina e allo sportello, dei treni in cui fa troppo caldo o troppo freddo, del vicino rumoroso e del partner silenzioso, del Canone Rai e degli spot pubblicita­ri, degli ombrelloni troppo ravvicinat­i e del bar troppo lontano, del farmacista che esige la ricetta e del cliente che pretende la fattura. Si borbotta tra colleghi, ci si lamenta con i capi, si scrivono lettere ai giornali, si va in tv per gridare che così non va.

Esi fanno i paragoni. Con quello che guadagna di più o lavora meno («È sempre in ferie!»), ha la casa almare o la barca, ha avuto successo, o anche solo salta la coda alle Poste perché è correntist­a… Sì, perché la lamentela va di pari passo con l’invidia e, come è scritto nel cartello di Papa Francesco, con il vittimismo. Che spesso è cosmico e nutrito di luoghi comuni su come si sta meglio inGermania, in Francia, in Gran Bretagna o negli Stati Uniti del super-vituperato Donald Trump. Il risultato è che ci si adagia, si dà la colpa al mondo, ci si piange addosso e non si fa assolutame­nte nulla per cominciare, passo dopo passo, a cambiare lo stato delle cose. Canta Jovanotti nella canzone Fango: «Ti guardi intorno e non c’è niente: un mondo vecchio che sta insieme solo grazie a quelli che hanno il coraggio di innamorars­i. E una musica che pompa sangue nelle vene e che fa venire voglia di svegliarsi e di alzarsi. E smettere di lamentarsi». Ecco qua: smettere di lamentarsi. Sarebbe un buon inizio.

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A sinistra, il cartello che il Papa ha voluto appendere qualche settimana fa sulla porta del suo appartamen­to a Santa Marta.

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