«Come fugge il tempo»
C’è un periodo nella vita in cui, più delle speranze, contano i ricordi. È passato tutto in fretta, ma non bisogna averne paura: così è la vita che va! All’anagrafe mi segnarono nei registri stampati dal Fascio. La mia generazione ha sofferto la miseria nelle campagne della Valdichiana. Dodici, quindici ore di lavoro e tanta fatica per arricchire i proprietari della terra e, quando pareva che stesse iniziando l’era del progresso e dei diritti, anche per i contratti dei contadini a mezzadria, arrivò la Seconda Guerra Mondiale a farci ricadere nella miseria più nera. Nelle notti in cui il sonno tarda ad arrivare, ripenso a quella che è stata la mia vita, soprattutto ricordando le cose che hanno segnato quel periodo di inconscia adolescenza, sopraffatta dal pensiero di voler imitare le persone più grandi anche nei semplici lavori manuali della cascina. Riappaiono le lunghe estati di sole, i giochi nell’aia con i miei cugini e i ragazzi del vicinato. La sagra della trebbiatura con tanta gente che lavorava sudata a gettare i covoni nella trebbia, i miei primi lavori nei campi al fianco dei grandi, mangiare di gusto la frutta rubata dagli alberi dei pometi del padrone. Ma anche tanti inverni freddi e la pancia vuota: il moccio al naso, le mani coperte di geloni, solo un piatto di minestra di pane e fagioli per cena e un frutto, quando c’era. Era festa quando arrivava il “norcino” ad ammazzare il maiale: al palato facevamo ricordare il sapore della carne, poi tutto finiva e ritornavamo a desinare con un pezzo di pane, un pugno di castagne e qualche volta una mela.
La storia cammina in fretta e mi accorgo che allora ci accontentavamo di poco ed eravamo felici. Come tutto è lontano... nel ’52 avevo 16 anni, stagione dei primi pruriti. Ricordo quante ragazze, nei pensieri, hanno attraversato la mia adolescenza. Per alcune la passione nasceva dal desiderio condiviso con altri ragazzi. La domenica le guardavamo passeggiare nella piazza, paragonandole al prototipo di attrici che avevamo visto al cinema. Il desiderio nasceva prima ancora d’incontrarne una che lo potesse incarnare. Ogni donna che ti passava accanto era quella che avresti voluto avere, fino a quando un’acerba ragazzina nel buio dell’unico cinema del paese eseguì il compito di stanare la mia libido. La sua morbida lingua passeggiò tra le mie labbra penetrando, poi, dentro. Un bacio umido che mi lasciò una sensazione di terrore, perché un bacio non doveva essere così. Nei miei pensieri i baci avrebbero dovuto essere più poetici e ugualmente sensuali, come quelli lunghissimi “a stampo” sulle labbra, visti al cinema. Nei giorni successivi la sensazione cambiò: dalla repulsione passai al turbamento, ma anche al piacere al pensiero che avrei potuto passare a più carnali contatti. Come accadde una sera di festa, quando lei mi offrì di baciare i suoi acerbi seni nel buio di unportone. Carla, così si chiamava la ragazzina, a quindici annimetteva il rossetto e a quei tempi solo le ragazze di malaffare potevano disegnarsi le labbra.
La rividi qualche settimana dopo abbracciata a un uomo molto più grande di lei. Non rimasi deluso, anzi: la sua giovane bellezza è rimasta il modello della donna che avrei desiderato dopo, carnale e perversa. Seppi che sposò quell’uomo più anziano di lei. Ebbe tanti figli e morì a 45 anni nel letto del suo ultimo amante. Confesso che la notizia mi fece una certa impressione, perché la Carla, comunque fossero state le scelte della sua vita, il giorno che presi il treno per affrontare il mio incerto futuro a Milano fu l’unica amica che, nell’abbracciarmi, singhiozzò e pianse calde lacrime sul mio viso. Poi la mia vita ha attraversato tante esperienze, il duro lavoro nell’officina di un mostruoso aguzzino che mi teneva inchiodato al tornio per dieci ore al giorno per poche centinaia di lire. Poi arrivò l’illusione di avere incontrato il grande amore, che si rivelò fedifrago perché la ragazza era sposata e me lo aveva taciuto, mettendo a rischio la mia incolumità. Aveva un marito fortemente incazzato che, da incauto cornuto, ebbe la dabbenaggine di affrontar-
mi pubblicamente nel solito bar che frequentavamo. Il riscatto dalla tirannia dell’aguzzino – e ci rimase male - si concretizzò con la mia assunzione in una grande azienda che comprese i miei meriti professionali, affidandomi subito importanti incarichi.
Anche lamia vita sentimentale ebbe una decisiva svolta con l’incontro della donna che avevo sempre aspettato. Ci conoscemmo una domenica pomeriggio in un viale di Milano durante il passaggio dei ciclisti per l’ultima tappa del giro d’Italia. Me la trovai accanto, pressata dalla folla: alta, bionda con lo sguardo fiero da mettere soggezione, gridava e batteva forte le mani al passaggio dei corridori. Anche lei tifava per Gimondi e nell’eccitazione per la vittoria del nostro beniamino, ci scambiam- mo un fugace abbraccio di gioia. Dopo le chiesi se era d’accordo a fare insieme due passi nel Parco e da allora abbiamo continuato a camminare insieme. Abbiamo avuto due figli, siamo stati e siamo una coppia felice da oltre cinquant’anni. Poi arrivò il giorno che l’anagrafe disse che per me era scaduto il tempo di andare in ufficio: rinunciare mi fece soffrire molto e anche il turbinio della grande città, convulsa e indaffarata, ogni giorno, mi faceva sentire insopportabile viverci dentro. Siamo ritornati al mio paese in Valdichiana. Con lo stupore di un bambino, ho percorso le vecchie vie del paese, i portoni dove mi rifugiavo con la Carla. Sono ritorna- to a vedere la mia scuola, i campi e la casa colonica che mi aveva allevato, il campanile aguzzo della chiesa, il viale degli ippocastani e il monumento ai Caduti: immagini che mi riempiono il cuore di fierezza.
Ho ritrovato gli amici; quelli rimasti, gli altri vado a trovarli al cimitero. Ho intavolato un dialogo con i loro figli e i loro nipoti per salvare il paese dalla noia partecipando alle iniziative culturali e festaiole per ridare vita al paese che stava morendo. Scrivo articoli per un giornale di Siena, meritandomi l’iscrizione all’Albo Nazionale. Da lì ho ricominciato quel percorso che avevo inizia- to a vent’anni nell’officina del tiranno per conquistare un posto di rispetto, ma adesso sarà tiranno il tempo. In questo mestiere di giornalista ho conosciuto gente stupenda che mi ha dato una mano per migliorare l’ingegno: li ricordo tutti. Al premio Diaristico di Pieve Santo Stefano, dove partecipai con un lungo racconto, ho rivisto Sara L. C’eravamo conosciuti una sera di novembre a intervistare il vincitore di una gara podistica paesana. Ero stato colpito dalla sua intelligenza e dalla bellezza del suo esile corpo. Giovanissima, si era laureata in filosofia, però amava fare la giornalista, e le diedi una mano portandola al mio giornale. Ora scrive per L’Espresso: traguardo che ho sempre sognato. Però, come fugge il tempo. Per me, le stagioni che rimangono saranno sempre più brevi.
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