«Il “mare” di Antignano»
UNA FAMIGLIA ITALIANA, DUE RUOTE, LA CAGNETTA DIANA E UN VIAGGIO SEMPLICE CHE DIVENTA UN’AVVENTURA TANTO SPECIALE DA ESSERE RIMPIANTA, ANNI DOPO
Erano i primi Anni 60. Antignano (Asti) era tutto il mio mondo di bambina. L’orizzonte che riuscivo a cogliere con lo sguardo arrivava lontano, perché abitavo in cima a una bella collina che si apriva sulla corona delle Alpi, sulla conca di Asti, sulMonviso e le Alpi Marittime e sugli Appennini. Mio padre, per darmi l’idea della vastità del mondo, mi diceva che al di là dell’ultimo orizzonte segnato dalle montagne c’era la Francia e, oltre i Giovi, un’ombra scura dopo il verde delle colline, c’era il mare. Le due cose per me erano ugualmente misteriose. I miei piedi non avevano mai calpestato né l’una né l’altro: immaginavo che avrebbero dovuto darmi sensazioni speciali. Erano entrambi dei confini: fra due nazioni e tra due elementi opposti, acqua e terra. La terra mi era familiare; ci facevo le torte per le mie bambole, una volta l’avevo anche assaggiata. Ma il mare non l’avevo ancora visto. A dire il vero non sentivo pressante l’esigenza di conoscerlo da vicino perché Antignano aveva il suo… mare.
Infatti nel mio piccolo comune scorre il fiume Tanaro, un affluente di destra del Po e per noi tutti antignanesi una sorta di piccolo mare. Il posto era ed è di una grandiosa e selvaggia bellezza. Tanaro aveva un’attrattiva per ogni stagione ma il suo tempo migliore era l’estate. In quegli anni si era quasi tutti appiedati: mio papà Lodovico aveva una Vespa Piaggio verdina ( nella foto, ndr), con due sellini gemelli e una borsa di stoffa bicolore sotto il manubrio. Il sabato o la domenica proponeva a me e mamma di andare a Tanaro: era una vera festa. Mamma Elvira aveva trovato non so dove un cesto della misura giusta per questo evento e una tovaglia per dare decoro al pasto sull’erba. Per il bagno c’era ben poco da scegliere: mamma non indossava il costume, forse nemmeno lo aveva, papà preferiva i “braién”, pantaloncini corti con cui poteva vivere un felice compromesso con l’acqua del fiume. Si infilava nella corrente che arrivava a lambirgli i polpacci, ma niente di più. Io possedevo un costume da bagno di lana azzurrognola, con pettorina e bretelle. Finché era asciutto aveva un aspetto accettabile; il problema arrivava quando mi immergevo nell’acqua. Si inzuppava come una spugna. Ma il momento veramente memorabile era il “viaggio” verso il Tanaro. Papà guidava la Vespa, mamma si accomodava di lato, come si sedevano allora le signore che indossavano rigorosamente la gonna, io venivo sistemata in piedi tra papà e il manubrio e se la mia testolina ingombrava la visuale del pilota, io reclinavo diligentemente il capo da un lato. Mamma si teneva con un braccio al guidatore e con l’altro reggeva cesto delle cibarie e borsa del bagno. Fra i miei piedi si accoccolava una cagnetta, Diana, anche lei molto interessata alla scampagnata. Disciplinatissima, non si muoveva fino a destinazione.
Arrivare a Premes, località abitata e vicina al letto del fiume, era un continuo scendere, giù per i tornanti, dalla strada provinciale a una sterrata. L’avvicinamento al fiume era pieno di segnali: tanti pioppi, salici, acacie. L’aria sembrava o più calda o più fresca di quella lasciata in paese. Un odore singolare di umido, di fango, di acqua aleggiava in basso. Le bianche pareti delle Rocche mi affascinavano. Tutta la comitiva stava un po’ in ansia per il tragitto finale dell’escursione. Papà dava segni di inquietudine. Mi esortava a stringere con forza le mani intorno ai tubi del manubrio e anche mamma ravvivava la stretta al busto di papà. Infatti, davanti a noi c’era l’imbocco dell’argine, in salita. Papà prendeva un po’ di rincorsa e poi ci diceva: «Tnive!» (tenetevi!). Era tutto un sobbalzo ma ognuno restava al suo posto. Allora l’argine era una barriera artificiale ben tenuta, erbosa e percorribile poiché al centro passava un sentiero ben segnato anche se molto stretto. Era il prezzo da pagare per raggiungere una spiaggia deliziosa con sabbia finissima e un’insenatura dove era possibile bagnarsi senza pericolo. E poi cominciava il divertimento puro. Dietro una siepe si allestiva la cabina. Mio padre giocava a far rimbalzare dei sassi sulla superficie dell’acqua. I pescatori sostavano altrove: avevano bisogno di silenzio. Papà mi accompagnava a salutarli. I discorsi, fatti sottovoce, scivolavano dalla pesca alla caccia, dalle carpe al volo di pernici, dalle lenze ai cani da caccia, chi aveva i segugi, chi i bracchi. E io ascoltavo. Era il mondo in cui vivevo. Mi sembrava di avere tutto. Persino il nostro “mare”, le nostre vacanze dietro l’angolo, la gita a corto raggio erano il massimo a cui aspirare e ancora oggi ricordo con emozione e con ricchezza di particolari quelle piacevoli esperienze.
Al contrario, ho dimenticato mete e viaggi più recenti in luoghi ben lontani e ho capito che non sono i chilometri a rendere speciale un “viaggio” ma lo spirito con cui lo si vive. Il mare vero e proprio l’ho incontrato un po’ più avanti, a Genova, e sempre con il famoso costume di lana azzurrognola. Lì ho avuto un momento di sbandamento: ero abituata al fiume con l’acqua che corre tutta in un’unica direzione, in fondo se ne va per i fatti suoi, giù giù verso un altro fiume o verso il mare. Sulla spiaggia, invece, la risacca veniva minacciosa verso di me, sembrava inseguirmi e, tornandosene verso la profondità, mi scavava la ghiaia sotto i piedi. Ricordo che dentro di me ho pensatomolto serenamente: «È meglio il mare di Antignano».
PAPÀ GUIDAVA LA VESPA, MAMMA SI ACCOMODAVA DILATO, IO INPIEDI TRAPAPÀ E ILMANUBRIO