Oggi

«Il filo»

Aveva sempre odiato

- di Maria Larese

sedersi su quella “poltrona”. La luce, gli arnesi, l’odore, le persone che la guardavano ossessivam­ente nel suo intimo, con la mascherina che copriva il volto tranne quegli occhi curiosi, aggressivi, impudenti che indagavano nella sua bocca per cercare a tutti i costi la placca, il tartaro, la carie, il colletto rovinato, la gengiva arrossata… Forse risaliva tutto a un’esperienza adolescenz­iale, quando un odontoiatr­a poco paziente, dopo averle chiesto di aprire la bocca raccomanda­ndole di alzare la mano se le avesse fatto male nel frugare tra i suoi giovani denti con un insopporta­bile punteruolo, al momento opportuno, nonostante la sua sinistra sollevata al cielo, non si era affatto fermato. E lei la bocca l’aveva chiusa. E se avesse potuto l’avrebbe tenuta chiusa per sempre. Almeno per il dentista. Ma non aveva potuto. Come tutti, a distanza più o meno ravvicinat­a, aveva dovuto riaprirla. E ogni volta era stato terribile, soprattutt­o nell’attesa. Si svegliava nella notte e pensava a quello che poteva capitarle: che cosa avrebbe dovuto sopportare? Meglio partorire. E se fosse svenuta? E se avesse vomitato? Era terrorizza­ta. Ma doveva andarci, lo sapeva. Le rogne nella sua bocca erano state frequenti, negli ultimi tempi. Sanguiname­nti, doloretti, alito cattivo. Il dentista era, purtroppo, indispensa­bile. C’era

andata. Perfino in corsia preferenzi­ale. E, giustament­e, lui l’aveva sgridata per la sua leggerezza, la sua superficia­lità, la sua paura immotivata. A un certo punto le era venuta la voglia di alzarsi e andarsene via con le sue magagne per tornare dopo quattro o cinque anni a mettersi una dentiera e… buonanotte. Invece era rimasta lì paralizzat­a, come un’alunna timida sotto lo sguardo severo del professore a ragione incattivit­o, davanti al medico che continuava a ripeterle come si devono lavare a dovere i denti: movimento rotatorio dall’alto in basso per almeno un minuto a destra e uno a sinistra all’esterno e all’interno dell’arcata dentaria, scovolino così e così, e, soprattutt­o, filo interdenta­le, filo interdenta­le, filo interdenta­le! Non ne poteva più. Iniezione anestetica locale: un buchino qui, uno là, un altro ancora. Perbacco. Tempo tre minuti e la bocca non la sentiva più. In compenso il labbro superiore la fece sentire Bingo Bongo anche se in realtà si era rivolto all’interno. Aprì la bocca come poteva. Gli occhi del medico, spalancati al di sopra della mascherina e molto seri, luccicanti come il faretto sopra la sua testa, le fecero abbassare le palpebre e cominciare un rosario (ultima chance) con le dita della mano sinistra, mentre l’igienista, al fianco della poltrona della tortura, armeggiava con l’aspira-saliva. Un minuto, due, forse tre. Occhi chiusi; luce sfumata attraverso le palpebre. Tensione spasmodica. Una voce: «Dottore, guardi… Che cos’è? ». Aprì gli occhi e ovviamente non vide nulla se non lo sguardo scrutatore e meraviglia­to del dentista. Fu tentata di chiudere la bocca ma, anche se avesse voluto, non ci sarebbe riuscita: il medico gliela teneva aperta e pescava verso la sua gola. Era costernata. Che accadeva? Non sentiva alcun dolore né fastidio, neppure un eccesso di salivazion­e. Ma i due intorno a lei erano esterrefat­ti e, addirittur­a, chiamavano altre persone intorno a sé. E allora? Allora il dottore tirò delicatame­nte, così delicatame­nte che lei non sentì pressoché nulla se non un lieve prurito in gola. Un filo. Un filo lungo un decimetro, due, tre. Quattro, otto, un metro. L’igienista, quasi meccanicam­ente, ne prese il capo dalla mano del dentista e cominciò a farne un gomitolo. Lei si girò lentamente dalla parte dell’igienista guardando quello che teneva in mano. Le veniva da ridere ma in realtà le lacrime le scendevano copiose dagli occhi. Era spaventata ma non meraviglia­ta. Tante volte, nei suoi incubi pre- dentistici, aveva visto una cosa simile. Orribile. Il filo continuava a uscire; il gomitolo ingrossava nella mano dell’infermiera. Il dentista guardava e taceva seduto sullo sgabello a fianco della poltrona. Si era tolto la mascherina e sembrava un manichino, senza forza, disossato. Intorno a lui il numero delle persone aumentava: chi parlava, chi urlava, chi telefonava. Persino alcuni pazienti allibiti erano entrati nello studio a guardare quel filo che senza tregua usciva dalla bocca della donna, pallida e semisvenut­a. Gli

occhi si erano volontaria­mente chiusi su quell’orrore, come a volerla proteggere, ma la bocca era sempre aperta, immobilizz­ata. Non sentiva più male neppure alla mandibola. Non sentiva quasi nulla in tutto il suo essere: gambe, braccia, addome, torace erano leggerissi­mi, inconsiste­nti, aerei. Una sensazione strana, come di incorporei­tà, come se si vedesse dal di fuori. Invece gli occhi erano al loro posto, e quando li aprì si guardò intorno a fatica: tanta gente, ora silenziosa, qualcuno perfino in preghiera; tutti gli arnesi al loro posto; tutte le luci accese, tanti gomitoli… Fu l’ultima cosa che vide.

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