IL SOLDATINO ABBANDONATO
ERANO AFFAMATI, STANCHI E IMPAURITI. DIVIDEMMO CON LORO LA PASTA
Per la nostra Imola, il 13 aprile del 1945 era l’ultimo giorno di guerra e, sebbene ci passasse sopra come un uragano che poteva ucciderci, eravamo felici e pieni di speranza. Finalmente, l’esercito angloamericano e i suoi alleati, si erano mossi dopo cinque mesi sul fronte Castelbolognese - Fontanelice, dove avevano passato l’inverno sparando cannonate ai tedeschi e sudi noi inermi civili, ormai stremati. Erano proprio tre giovani soldati tedeschi in ritirata che la sera prima avevano bussato al nostro portone e ci avevano chiesto se potevano passare la notte in cantina con noi al riparodallebombe: là fuori si era scatenato l’inferno. Erano gentili, quasi supplichevoli, ben diversi da quelli che avevamo conosciuto per tanti mesi, prepotenti e autoritari.
Miamadrefeceentrare i tre soldati ed ebbe pena per loro, erano giovani e uno di loro forse non aveva neppure sedici anni. Veniva da pensare che fossero poveri figli lontani da casaacombattereunaguerra che non avevano certo voluto e i lorogenitori dovevano staremolto in pensiero. Erano affamati, stanchi e impauriti, dividemmo con loro unpentolonedi pasta e fagioli bollente e dai loro sguardi sicapivacheeramolto tempo che nonmangiavano un piatto caldo. Ci ringraziarono e si sistemarono inunangolodella nostra cantina dove c’erano deimaterassi e dellecoperte, ma prima che si addormentasseroimiei genitori glidissero che se volevano restare a casa nostra fra un giorno o due la guerra sarebbe finita. Sarebbero stati fatti prigionieri dagli angloamericani e quindi avrebbero avuto salva la vita, mentre fuggendo tra le bombe potevano morire. Noi li avremmo tenuti nascosti fino a quel momento. Avevano paura di arrendersi perché i lorocapi gliavevano detto che nell’esercito americano c’erano dei soldati negri che seviziavano e tagliavano leorecchie e il nasoai prigionieri tedeschi, e così risposero che non potevano restare, ma da come discussero tra di loro forse l’idea non gli dispiaceva. Quella era la falsa propaganda dei loro capi perché non si arrendessero o disertassero.
La mattina dopo, prestissimo, si erano intensificati ancor più gli scoppi dei cannoni e delle mitragliatrici, sempre più vicini; segno che gli eserciti angloamericani stavano avanzando e questo voleva dire la fine della guerra, della fame e della paura. Eravamo felici e prese a tutti una grande euforia. In tutto eravamo trentuno persone nel nostro condominio di nove appartamenti e quindi nove famiglie, compreso mio zio Pierino, che tenevamonascostoperchépartigiano ricercato dai fascisti. Diventammo imprudenti come se quella nostra felicità ci rendesse invulnerabili allebombeche cadevano tutt’intorno sempre più fitte. Invece si poteva mo- rire anche l’ultimo giorno. In fondo al nostro piccolo orto dietro casa, avevamo un pollaio con tre o quattro galline e mio padre, mia madre e io uscimmo tutti e treper prenderle e portarle al riparo in cantina. Stavamo rientrando quando tre granate di mortaio esplosero a pochi metri da noi passandoci sopra di pochissimo. Io fui colpito da una zolla di terra sulla testa che nonmi ferì e corsi come un fulmine verso casa precedendo i miei genitori, anche loro illesi per grandissima fortuna. Nonostante il pericolo corso, ero contento di aver salvato la mia Nerina, una brava gallina che faceva permeunuovo tutti i giorni e in quei tempi era una fortuna mangiare qualcosa. Gli scoppi così vicini svegliarono il soldatino che, stanchissimo, dormiva ancora.