Oggi

«Duepassi traanimaec­uore»

- di Gisella De Piccoli, Alpago Belluno

Due smeraldi erano gli occhi, su un viso pieno di luce; nonostante le spigolatur­e della vita, aveva luce e riflessi da regalare a chiunque le stava accanto. Erano i lontani Anni 60, io piccolina con la testa tra le nuvole, lei poco più grande e sbarazzina. Crescevamo insieme ed era come ritrovarci su un prato pieno di fiori, il valore di quei petali di mille forme e colori, come un sigillod’amore in fondo alla nostra anima.

Lei era la moglie del presidente Kennedy, la First Lady conle scarpe a spillo tra le mani (a cosa mai le servivano), io la sua cameriera. Le scarpe erano per me una contraddiz­ione, non ne avevo mai cura poiché pensavo che, se non poteva metterle lei, perché avrei dovuto esibirle io e così sceglievo sempre le più brutte. Lei un uragano nell’inventare i nostri giochi, che erano tutti di fantasia, non avevamo nient’altro. Eravamo piccole e a volte anche sconso- late ma con la nostra inventiva riuscivamo a rendere magica ogni cosa tanto da colorare di arcobaleni anche il nulla. Io coloravo per lei tutto quello che non riusciva a vedere stando sempre in casa, i miei occhi erano la sua macchina fotografic­a, dipingevo i posti dove lei non poteva andare bloccata come sempre dentro la sua prigione: era un modo per dimostrarl­e tutto il bene che le volevo. Non c’era allora un fisioterap­ista, il letto che si alzava e abbassava, non c’era l’assistenza, né il volontaria­to, solo la nonna e il suo grande amore che arrivava ovunque. Zia Giuliana era come una bellissima rosa, ma come le rose più belle la sua vita era fatta di spine, tante spine talora molto dolorose, che fin da bambina si sono conficcate nella sua carne e ancora più nel suo animo; le spine della sofferenza fisica; le spine del dover dipendere in tutto dagli altri e dover ritmare la sua vita su quella degli altri; le spine dell’incomprens­ione, le delusioni, la mancanza di delicatezz­a... spine così familiari da non farci più caso, ma sapeva tacere, imbrigliar­e il suo pianto e non far pesare la sua croce.

Passavail tempo, e in fondo al cuore paragonavo ziaGiuly a un aquilone: avrei voluto vederla volare in alto, sostenuta da un filo invisibile, un filodove corre l’amore che non si spezza, che dà vita, che mai abbandona. Ma sono tanti gli aquiloni che non riescono ad alzarsi in volo e che restano impigliati ai rami di un albero e lei era uno di questi. Lei che aveva la chiave per trasmetter­e agli altri conforto e speranza, lei che cercava sempre una via d’uscita tenendo le mani davanti agli occhi e sbirciando tra le dita convinta che i pensieri positivi e la fede in Dio compissero miracoli.

Nonostante la suaprigion­e, aveva un carattere forte e deciso: tra ledue la più originale era lei; ideava i giochi più strani e divertenti. Mi ha trasmesso fiducia e gusto per la vita, mi ha spiegato il valoredei sacrifici, mi ha insegnato con il suo vivere come rinunciare a tutto quello di cui si dovrebbe fare a meno. Mi ha guidato con saggezza come una vera maestra, facendomi capire che la ricchezza più grande è quella che portiamo nel cuore e chenessuno ci può rubare. Gli anni trascorsi insieme hanno contribuit­o a farmi diventare quella che oggi sono, perché l’amore sempre costruisce e sempre rimane. Il suo credere era semplice e autentico di chi si affida a Dio senza tante domande. I suoi viaggi a Lourdes erano pieni di speranza, davanti alla Madonna sperimenta­va il vero amore, la luce che guidava i suoi passi. In quei luoghi ha conosciuto molti amici che le sono stati accanto e le hanno regalato momenti spensierat­i. Loro, il meraviglio­so equipaggio dell’Unitalsi. Credo che

proprio nella speranza di un miracolo (ma il miracolo era lei) ripercorse quei viaggi per oltre trenta anni, portandosi dietro la sua valigia colma di sogni e di emozioni, ma anche di delusioni e di rassegnazi­one nonostante il suo sorriso pur sempre radioso.

Anche i viaggi alla Madonna di Castelmont­e sulla macchina di Corrado erano colmi di speranza. Corrado, una persona semplice ed estrosa, con lui non ci si annoiava mai, faceva il taxista, il venditore di bombole del gas e di “masanete”, in paese con la moglie gestiva un negozio di tessuti e di scarpe, ma lui portava quasi sempre scarpe di legno, le classiche “dalmede”, e indossava vestiti dai colori sgargianti, non contava per lui l’abbinament­o. Un uomo semplice e generoso, un vero poeta, nobile nei gesti e nelle parole. Grazie Corrado, i viaggi dentro la tua macchina sono stati per me e zia un modo per scoprire altre realtà, altri luoghi. A quei tempi la macchina era un lusso di pochi e la tua - sempre piena di tutto, incasinata dentro - era per entrambe come una splendida limousine da dove con il naso schiacciat­o ai finestrini guardavamo incantate paesi mai visti. Eri così buono che, quando andavi alla stazione per accompagna­re qualcuno che partiva per la Svizzera, caricavi dentro la macchina oltre alle valigie e al passeggero anche noi bambini, non importa quanti fossimo. Tu non ne lasciavi giù uno e, così ammucchiat­i e schiacciat­i fino a non respirare, ci portavi a vedere il treno. Corre il tempo, arriva il novembre del ‘66. Una grande alluvione si abbatte su tutta la zona, una frana irrompe anche sulla casa dei nonni, per zia nella sua situazione diventa pericoloso rimanere lì, ma non è facile trovare un’altra casa. Con grande generosità, il sig. Scola (segretario comunale di allora) le accoglie dentro la sua famiglia, persone splendide e ospitali (cose d’altri tempi). Più tardi, trovano una vecchia casetta, senz’acqua, senza luce e senza bagno. La nonna si accontenta, non si lamenta mai, le basta sapere che zia Giuliana è al sicuro. Una vita difficile per nonna, mai un giorno di vacanza, mai nulla, solo un’ombra tacita e preziosa accanto a sua figlia. Un esempio di bontà e altruismo che non ha parole. Rotolano gli anni e un giorno, all’improvviso, Zia Giuly si sente male. Mentre l’accompagno all’ospedale, tengo stretta la suamano e mi sembra di tenere in mano la sua paura. È sempre stato misterioso per me il modo con cui affrontava il dolore!

Una mattina di buonora se n’è andata, in quel posto dove tante volte ha desiderato andare. Era il mio raggio di sole, l’abbraccio dolce in cui rifugiarmi. È pur vero che siamo venute dal niente, un niente fatto davvero di nulla, ma quante volte io e lei ci siamo perse nei nostri abbracci, nei nostri sogni. Là dove ora riposi parlo ancora con te: è difficile far salpare nuovamente la vita, quando è stata così profondame­nte segnata dal tuo esempio; tu mi hai amata e spronata, mi hai trasmesso grinta e caparbietà donandomi equilibrio e sicurezza per andare lontano. Su un libro del cuore qualcuno ha scritto: «Io sono stato creato per fare o per essere, qualche cosa per cui nessun altro è mai stato creato, poco importa che io sia ricco o povero, stimato o disprezzat­o, efficiente o inerme, poco importa. Dio mi conosce e mi chiama per nome, sono necessario al mio posto quanto un arcangelo al suo». Ecco, questa l’essenza del tuo vivere e del tuo soffrire. Mi dispiace zia Giuly, so che non me lo perdonerai, ma a me piacevi così, con la tua disabilità, perché ti faceva diversa, speciale, non come tutte le altre, non una qualunque, ma un dolce, luminoso miracolo.

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