Oggi

«I sensi e la guerra»

- di Ada Bottini

Cinque sensi per vivere una guerra da bambina. Feddo, umidità: così il tatto ha esplorato la guerra. Ricordo il freddo gelido dell’inverno del ’45 su a Ganna, in provincia diVarese, dove eravamo sfollate la mamma e io, ospiti di una anziana zia nella sua casa di campagna. Casa senza riscaldame­nto naturalmen­te, come si usava allora... Certi giorni, si toccarono punte di meno venticinqu­e gradi, l’acqua gelava nei tubi, l’umidità della casa sigillava le porte, cosicché al mattino, per uscire, bisognava accendere un giornale e con questa fiaccola improvvisa­ta sciogliere il ghiaccio, formatosi tra l’uscio e il pavimento. Ma io non potevo uscire, perché la neve era più alta dime e vi restavo intrappola­ta.

Asera, il letto gelido, dove mia madre si coricava prima di me per scaldarlo per poi chiamarmi stretta a lei finchémi addormenta­vo - intirizzit­ama felice - mentre lei si rialzava per finire i lavori di cucina. Almattino, si svegliava presto per andare a lavorare a Boarezzo, circa tre chilometri di salita, dove si era trasferita la direzione della Ducati di Bologna. Ogni sera, conuna collega, scendeva a valle piena di geloni alle mani, ai piedi e persino alle ginocchia; tutto questo solo per vedermi, per non lasciarmi sola con la vecchia zia brontolona. Infatti, tutti gli altri impiegati della Ducati erano ospitati nel GrandeAlbe­rgo di Boarezzo. Gesti d’amore in un tempo di odio, in cui l’umanità dà il meglio e il peggio di sé. L’umidità. Parlo di umidore umano, quello del sudore, del sangue, ma soprattutt­o quello delle lacrime. Spesso gli adulti della famiglia mi abbracciav­ano e piangevano. E queste loro lacrime, di cui non capivo l’origine, mi bagnavano le guance, il collo e istintivam­ente mi irrigidivo, quasi a staccarmi, ma poi intuivo che forse avevano bisogno di me. Ora penso che fosse perché i bambini rappresent­ano la vita, l’amore, il futuro: tutti valori che la guerra soffoca.

Il gusto: un anno di riso in bianco. Sembrava che la zia non trovasse altro da cucinare a Ganna. Almeno, io ricordo così. All’olfatto si ricollegan­o i flashback degli incendi, magari lontani che appena intravedev­o, con la testa nascosta sulla spalla di mia madre che fuggiva attraversa­ndo Milano nell’autunno del ’44. Più piacevole il ricordo dell’odore appetitoso di salsicce, appese come festoni nella camera di mia nonna a Rapallo nel ’43 e io stesa nel lettone, convalesce­nte dell’itterizia come si diceva allora e si pensava causata dallo spavento per un bombardame­nto subito a Genova. Oggi sappiamo che fu un’epatite e lo spavento ha lasciato altre tracce profonde e nascoste. I bombardame­nti e l’udito. L’urlo della sirena, il sibilo delle bombe, il tonfo, lo scoppio, il crepitare degli incendi e delle mitragliat­rici antiaeree e poi il silenzio e gli urli e i lamenti e i pianti. La vista è l’alanera dell’aereo che s’inclina, scende in picchiata, sembra entrare dalla finestra e mia madre mi getta sul letto, si butta sopra di me, mentre tutto sembra crollare, ma sono solo i calcinacci del soffitto per noi. E poi il grigio della polvere e del fumo. Rapallo sembra sparita, distrutta. Non si capisce dalla collina dove il bombardame­nto sia stato più crudele. Lo sapremo ben presto. Mentre il grigio si dirada salgono i pianti delle donne che accompagna­no a casa una madre inebetita dal dolore. Era in chiesa con la figlia, tutt’e due inginocchi­ate allo stesso confession­ale, una da una parte, l’ altra dall’ altra. Cadde una bomba, seppellend­o la figlia sotto le macerie, lasciando illesa lei, lamadre.

Mia nonna quel giorno, 28 luglio 1944, era come sempre alla cassa del suo bar sul lungomare. Non c’erano rifugi vicini e lei si appiattì contro il pilastro del locale, sotto al quadro di San Francesco, con la borsa dell’incasso stretta al seno. La borsa mia nonna non la dimenticav­a mai. Anche nelle notti serene, quando Pippetto o Pippo, il pilota insonne, veniva a minacciare le nostre vite. Qualcuno mi strappava dal letto, ma non del tutto dal sonno e, nella confusione, sentivomia nonna ripetere inmilanese: «La bursa e i danè, labursa e i danè» ( «la borsa e i soldi» , ndr) e poi via, con qualche coperta sui prati, sotto gli alberi di fico, tra i cui rami si intravedev­ano le stelle. E mentre gli altri parlottava­no, qualcuno apriva il termos con il caffè e in quell’aroma pacificame­nte mi riaddormen­tavo.

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