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Il giallo di Lidia Macchi Parla la sorella: «Binda dica la verità» di Cristina Bianchi

LA PERIZIA HA INDIVIDUAT­OSUL CORPO DELLA STUDENTESS­A CINQUE FORMAZIONI PILIFERE. UNAÈDI LIDIA, LE ALTRE HANNO IL DNA DI UN «IGNOTO». MALA FAMIGLIA ATTENDE ANCORA GIUSTIZIA. «È 31 ANNI CHE PORTIAMO IL PESO DELLA NOSTRA SOFFERENZA»

- Dall’inviata Cristina Bianchi Varese, gennaio

Sono stata io a comprare quell’abito da sposa con cui Lidia venne sepolta. Aveva solo 21 anni, era la mia sorella maggiore, allegra, con uno sguardo aperto sulla vita. Mamma mi disse: “Va’ a comprare il vestito, pensaci tu, desidero ricordarla così». Stefania, sorella di Lidia Macchi, parla con pacatezza. Non ci sono rabbia o lacrime in questa sua riflession­e che affida solo a Oggi, mentre a Varese comincia l’udienza in Corte d’Assise, con Stefano Binda accusato di quel delitto di 31 anni fa: la studentess­a universita­ria simpatizza­nte di Comunione e Liberazion­e venne uccisa con 29 coltellate nella notte fra il 5 e il 6 gennaio 1987 e ritrovata in un bosco vicino all’ospedale di Cittiglio, Varese. Oggi, il particolar­e dell’abito da sposa torna importante. Perché avrebbe protetto il corpo di Lidia, riesumato nel marzo 2016, e le 6.300 tracce pilifere rinvenute durante l’ultima autopsia. Gli esperti (tra cui l’anatomopat­ologa Cristina Cattaneo, la stessa di Yara), hanno individuat­o in particolar­e cinque capelli. Uno diLidia, altri quattro con lo stessoDna, che non è di Binda. È il Dna di un Ignoto. Si riparte da qui, da questa relazione di 300 pagine trasmessa dal Gip alla Corte d’Assise. Che però per la Pm Gemma Gualdi non ha valore perché quei capelli possono essere delle centinaia di persone che hanno salutato la salma di Lidia. E anche StefaniaMa­cchi non ci sta. Perché non è soddisfatt­a? «Non ho capito i titoli di alcuni giornali. Non bastano quattro capelli, che non sapppiamo di chi siano, a dirci la verità su Lidia. Non è una svolta che scagiona la persona accusata del delitto. Siamo in un impasse. A meno che Stefano Binda non dica finalmente la verità. Tutto quello che sa». A questo punto, però, potrebbe essere innocente. Non crede? «Non saprei rispondere. La Procura ha fatto le sue indagini, ha trovato motivazion­i al delitto. Mi affido alla giustizia». Quali sentimenti prova ora, che il processo è al finale?

rush

«Una grande fatica. Tutti noi in famiglia ne portiamo il peso. Ma non è una novità. È così da quel giorno in cui mia sorella è stata uccisa. La Polizia ha sempre detto che l’assassino non è stato uno sconosciut­o, passato di lì per caso. Se fosse Binda il colpevole, sarebbe più doloroso, perché lo conoscevo. Ma se fosseuno sconosciut­o, per me sarebbe difficile comunque». Lei, Lidia e Stefano a Varese eravate compagni di scuola. «Frequentav­amo lo stesso liceo classico, quello storico, il Cairoli. Io avevo due anni meno di Stefano e tre anni meno di mia sorella». Ha bei ricordi di quei tempi? «Di Lidia ho tanti ricordi belli. Era quella con cui mi confidavo. Una sorella schietta, solare, anche se pure lei aveva i suoi momenti bui. Ma in generale era piena di carica». A questo punto Stefania Macchi ci tiene a precisare che la loro famiglia era di sani valori, ma non bigotta. «Io e Lidia eravamo cielline ma frequentav­amo amici fuori dal movimento. Ricordo le lunghe vacanze inmontagna, con imiei, in camper. All’inizio io avevo 12 anni, ero la piccola della compagnia, il più grande ne aveva 23: eravamo 50 ragazzi e nessuno di loro era di Cl. Andavamo nelle discoteche, prendevamo le brioche al forno alle sei del mattino. In quei mesi di vacanza magari capitava di non non andare neanche a messa la domenica». Perché non crede all’ipotesi di un rapporto sessuale consenzien­te tra Lidia e il suo assassino? «Proprio per quello. Lidia era vergine. Nell’87 studiava all’università a Milano, dal lunedì al venerdì. Se avesse voluto avere il suo primo rapporto d’amore, c’erano altre opportunit­à. Ha subìto violenza ( anche se la perizia lo escludereb­be, ndr) o è stata costretta sotto minaccia. Lidia non era neanche il tipo che avrebbe aiutato un tossico nella speranza di salvarlo, come si è detto ( Binda si drogava, ndr). Era sveglia, in quel caso si sarebbe rivolta a qualcuno di più grande per avere consigli». Stefano frequentav­a casa vostra? «Miamamma si ricorda che venne solo dopo, da noi. Non era della cerchia stretta ma lo conoscevo. Siamo stati per un periodo breve nel gruppo giovanile di Cl insieme. Era affascinan­te. Intelligen­te. Sembrava più grande». Le pareva un tipo violento? «Non homai pensato che lo fosse, dal punto di vista fisico. Magari era violento intellettu­almente. Era iscritto a Filosofia e, se non eri all’altezza della sua dialettica, in qualche modo ti umiliava».

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Stefano Binda, 50, all’uscita dal Tribunale del riesame di Milano nel 2016, che gli ha negato la scarcerazi­one. AVarese continua il processo in Corte d’Assise. Lui si proclama innocente
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Le due giovani amavano la montagna

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