LUCA GOLDONI
Lafigliadi unamicoentra incasadi corsa, sbatte lo zainetto per terra e si avventa sul cestino del pane. Sua madre tenta debolmente di dissuaderla: «A tavola non avrai più fame». La figlia la guarda con gli occhi chiarissimi e la bocca piena: «Ho
fame a-d-e-s-so». E io le invidioquesto momento di beatitudine: una fame da lupi e la facoltà di soddisfarla in tempo reale. Allamia generazione era interdetto l’ingresso in cucina: ti rovini l’appetito. Avrei dato l’anima per rovinarmelo con un pezzodi pane intintonel tegamedel sugo. Ho ricevuto un’ educazione ferma e tuttavia dolce, basata sulla persuasione. Solo per il mangiare mia madre diventava dura come
le Gertruden dei film. E ho trascorso l’infanzia a chiedermi perché non mi lasciavano mangiare quando ne avevo voglia emi obbligavano quando non mi andava più. Appartengo a una generazione di martiri condannati ai digiuni. Per la comunione (anche se la messa col vescovo cominciava amezzodì). Per il primogiorno al mare: purga obbligatoria per il «cambiamento dell’aria» (oggi gli infanti si purgano con un confetto e poi si spazzolano piatti di spaghetti). Queste liturgie alimentari hanno segnato
indelebilmente la mia vita. Ancora oggi non entro in cucina e aspetto
disciplinatamente il mitico: è pronto! E se rispondo che finisco di scrivere una frase, risuona perentorio il secondo avviso: pranzo immediato, uscita numero tre. Sono diventato patetico: una volta che, seduti al ristorante, ci hanno servito un vassoio con cubetti di mortadella e scaglie di parmigiano, ho chiesto esitante alla mia vicina: possiamo mangiarli subito? Un’altra volta ho preso coraggio e, finito un risotto ai carciofi, ho detto al cameriere: me ne porti un altro. Tutti mi hanno guardato e sentivo i commenti: come secondo, ha preso un altro primo! Da qualche tempo ho cominciato a mangiare secondo istinto e ispirazione.