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Addio, Mister Mondonico Era l’alieno buono del calcio

IL MISTER SE N’ È ANDATO A 71 ANNI PER UN TUMORE, DOPO UN AVITA SPESA A RISOLLEVAR­E CHI CREDEVA DI NON FARCELA. DAI CAMPIONI DEL PALLONE AI RAGAZZI DA RIFORMATOR­IO

- di Paola Manciagli

Se c’èuna cosa che cihamostra­to il dolore per lamorte diFabrizio Frizzi, è che l’umanità è la base di ogni grandezza. Per questo, ha commosso tanto anche la scomparsa dell’allenatore Emiliano Mondonico, strappato via dal male che fa gridare all’ingiustizi­a, un tumore, che gli è capitato a 64 anni. È morto a 71. A piangerlo e rimpianger­lo non sono solo gli appassiona­ti di calcio, che ricordano il suo talento (un po’ ribelle) col pallone prima, e da tecnico poi, capace di prodezze sulle panchine di squadre che all’epoca non sembravano destinate al Gotha (vedi l’Atalanta ’87/’88 che arrivò alla semifinale di Coppa delle Coppe o il Torino ’91/’92 in finale di Coppa Uefa, per dirne due). Sono soprattutt­o le persone di tutti i giorni, mamme, papà, ragazzini dell’oratorio. O ancora, sofferenti alle prese con disabilità o dipendenze da alcol, gioco d’azzardo e stupefacen­ti. Persino Fulvia e Mauro, i genitori della piccola Y ara Gambi ras io, la tredicenne uccisa aB rem ba tenel2010,h anno trovato un po’ di sostegno in Mondo nico, che ha fatto da ambasciato­re alla Fon- dazione dedicata alla loro figlia. Sì, perché quando il temibile liposarcom­a lo ha strappato al profession­ismo (allenava l’AlbinoLeff­e), Mondonico, «Mondo» per tutti, non ha dimenticat­o chi era e cosa sapeva fare: e cioè portare a un punto di svolta chi non sa che può farcela, o non ci crede più.

CREDEVA NEI RAPPORTI UMANI, NELLA SQUADRA

Legato alla sua terra, la Bassa lombarda (i genitori con la trattoria, l’amore per la moglie Carla da quando era bambino e le tirava le trecce…), un giorno al bar del suo paese, Rivolta d’Adda, ha sentito parlare di un medico in gamba che lavorava al Centro di riabilitaz­ione dalle dipendenze all’ospedale Santa Marta. E si è ritrovato ad allenare al calcio una squadra di uomini e donne che stavano cercando di ricostruir­si una vita. Non li vedeva diversi da sé: «Anche io con la malattia mi sono sentito a terra, sconfitto», diceva. «È la vita in generale che è difficile». L’importante

era andare avanti, tutti, lui in prima linea: a un giovane con l’atteggiame­nto da duro, che in realtà era spaventato a morte dai guai giudiziari che aveva in corso, riuscì a far spostare il processo pur di non fargli saltare gli allenament­i che erano il suo rifugio. Credeva nel calcio che sapeva dare valori sani, ma credeva ancora di più nei rapporti umani, nel fare squadra. Non solo in famiglia (all’oratorio, a Lodi, s’inventava allenament­i congiunti papà-mamme-figli, aiutandoli davvero a conoscersi un po’ di più): organizzav­a match tra gli studenti delle medie e le persone del centro di recupero, tra insegnanti e genitori, tra giostrai ambulanti e gente di paese della bergamasca. E non hamai smesso di dire la sua sul calcio di adesso, commenti accorti, battute, ricordi. Ora, Mondo non c’è più. Eppure, in qualche modo, sul male ha vinto lui: è riuscito a chiudere il passaggio suquesta terra restando fedele fino all’ultimo a se stesso, e al suo (grande) stile.

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