Oggi

Com’eri vestita non c’entra: niente giustifica uno stupro

UNA MOSTRA PROVA CHE L’ AGGRESSORE NON È“PROVOCATO” DALL’ ABBIGLI AMEN T 0

- di Giulia Bongiorno e Michelle Hunziker Giulia Bongiorno avvocato penalista, senatrice della Lega Michelle Hunziker attrice e showgirl. Dal 2007 si battono contro violenze e discrimina­zioni

Purtroppo succede spesso, dinanzi a una violenza e in particolar­e a uno stupro, di sentir dire che la donna - in unmodoo nell’altro - “se l’è voluta”. Ci sonomille pretesti per sostenere questa tesi, prima fra tutti l’abbigliame­nto: sono in molti a cogliere un pretestuos­o collegamen­to e a dire che gli abiti vistosi - scollati, corti, aderenti -, che esaltano le forme del corpo femminile, dovrebbero essere evitati; oppure che poi non ci si dovrebbe stupiredi esseremole­state, aggredite o stuprate. L’abbigliame­nto femminile è stato inoltre oggetto di storiche pronunce giurisprud­enziali. Nel 1998( Cass.,Sez. III, 6 novembre 1998, n. 1636), riguardo a una vittima che indossava un paio di jeans, fu sostenuto dalla Cassazione che- poiché, per comune-esperienza, è quasi impossibil­e sfilare anche in parte i jeans senza la fattiva collaboraz­ione di chi li indossa - la donna aggredita sarebbe stata collaborat­iva, e quindi consenzien­te. Per fortuna, questo orientamen­to è stato nel tempo superato dalla stessa Corte, che ad esempio nel 2008 (Cass., sez. III, 10giugno 2008, n. 30403) ha ritenuto il fattoche una ragazza indossasse pantaloni tipo jeans per nulla ostativo al toccamento interno di parti intime, essendo ben possibile farlo penetrando con lamano dentro l’indumento. I jeans (e simili) non sono cinture di castità. In questo

contesto, voglio segnalare un’iniziativa interessan­te, intrapresa proprio nel tentativo di superare certi pregiudizi: a Milano - in collaboraz­ione con laCasa dei diritti e con la Rete Antiviolen­za cittadina - è stata allestita unamostra di abiti indossati da vittime di violenza. Gli organizzat­ori si sono ispirati a un’iniziativa analoga, dal titolo What Were YouWearing? (cosa indossavi?), curata da MaryWyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas. Gliabiti in mostra non avevano nulla di provocante: tra gli altri c’erano jeansemagl­ietta, una gonna al ginocchio, un maglione, un pigiama di flanella. Il messaggio che si è voluto trasmetter­e è chiaro: la violenza non è mai determinat­a da quello che una donna decide di indossare, sebbene sia ricorrente la convinzion­e contraria; una convinzion­e che finisce, a ben vedere, per spostare la colpa dai carnefici alle vittime. Avoltesemb­ra troppodiff­icile ammettere quello che secondo me è ovvio, cioè che il responsabi­le della violenza è solo chi la commette: più facile insinuare che la donna provoca o collabora, e che unaminigon­na, una maglietta scollata o un paiodi pantaloni attillati rappresent­ano un segnale di “disponibil­ità”.

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