Com’eri vestita non c’entra: niente giustifica uno stupro
UNA MOSTRA PROVA CHE L’ AGGRESSORE NON È“PROVOCATO” DALL’ ABBIGLI AMEN T 0
Purtroppo succede spesso, dinanzi a una violenza e in particolare a uno stupro, di sentir dire che la donna - in unmodoo nell’altro - “se l’è voluta”. Ci sonomille pretesti per sostenere questa tesi, prima fra tutti l’abbigliamento: sono in molti a cogliere un pretestuoso collegamento e a dire che gli abiti vistosi - scollati, corti, aderenti -, che esaltano le forme del corpo femminile, dovrebbero essere evitati; oppure che poi non ci si dovrebbe stupiredi esseremolestate, aggredite o stuprate. L’abbigliamento femminile è stato inoltre oggetto di storiche pronunce giurisprudenziali. Nel 1998( Cass.,Sez. III, 6 novembre 1998, n. 1636), riguardo a una vittima che indossava un paio di jeans, fu sostenuto dalla Cassazione che- poiché, per comune-esperienza, è quasi impossibile sfilare anche in parte i jeans senza la fattiva collaborazione di chi li indossa - la donna aggredita sarebbe stata collaborativa, e quindi consenziente. Per fortuna, questo orientamento è stato nel tempo superato dalla stessa Corte, che ad esempio nel 2008 (Cass., sez. III, 10giugno 2008, n. 30403) ha ritenuto il fattoche una ragazza indossasse pantaloni tipo jeans per nulla ostativo al toccamento interno di parti intime, essendo ben possibile farlo penetrando con lamano dentro l’indumento. I jeans (e simili) non sono cinture di castità. In questo
contesto, voglio segnalare un’iniziativa interessante, intrapresa proprio nel tentativo di superare certi pregiudizi: a Milano - in collaborazione con laCasa dei diritti e con la Rete Antiviolenza cittadina - è stata allestita unamostra di abiti indossati da vittime di violenza. Gli organizzatori si sono ispirati a un’iniziativa analoga, dal titolo What Were YouWearing? (cosa indossavi?), curata da MaryWyandt-Hiebert, docente alla University of Arkansas, e da Jen Brockman, direttrice del Sexual Assault Prevention Center presso la University of Kansas. Gliabiti in mostra non avevano nulla di provocante: tra gli altri c’erano jeansemaglietta, una gonna al ginocchio, un maglione, un pigiama di flanella. Il messaggio che si è voluto trasmettere è chiaro: la violenza non è mai determinata da quello che una donna decide di indossare, sebbene sia ricorrente la convinzione contraria; una convinzione che finisce, a ben vedere, per spostare la colpa dai carnefici alle vittime. Avoltesembra troppodifficile ammettere quello che secondo me è ovvio, cioè che il responsabile della violenza è solo chi la commette: più facile insinuare che la donna provoca o collabora, e che unaminigonna, una maglietta scollata o un paiodi pantaloni attillati rappresentano un segnale di “disponibilità”.