La tragedia aerea del ’72
«Nessun errore, fu un attentato»
Nelle numerose foto scattate la mattina del 6 maggio 1972 dalla polizia scientifica di Palermo sul luogo del più grave disastro aereo italiano, 115 vittime (superato decenni dopo solo da quello del Douglas MD- 87 della Scandinavian Airlines avvenuto all’aeroporto di Milano-Linate l’8 ottobre 2001), c’è qualcosa che non doveva proprio esserci. E manca invece qualcosa che avrebbe dovuto essere ben presente e visibile. Spiega Rosario Ardito Marretta, docente presso la facoltà di Ingegneria aeronautica di Palermo: «La sera del 5 maggio il volo Az 112 arrivò nei pressi dell’aeroporto di Palermo-Punta Raisi con a bordo oltre 20 mila litri di cherosene. Se, come stabilirono i periti di allora e confermarono poi le sentenze dei tribunali, il Dc 8- 43 “Antonio Pigafetta” si schiantò improvvisamente sulla montagna per un errore di rotta dei piloti, quella quantità di carburante, esplodendo all’istante, avrebbe dovuto produrre una specie di “effetto Pompei”, cioè la “vetrificazione” del terreno per effetto della liquefazione del silicio presente nelle rocce e la carbonizzazione di qualunque cosa nel raggio di molte centinaia di metri». E invece, come si vede ancora nelle foto, non solo non c’è la “vetrificazione” del terreno, ma resti non carbonizzati del Dc- 8 giacciono tra l’erba. I carrelli, i cui pneumatici avrebbero dovuto sciogliersi, appaiono in buono stato. E sono muti testimoni di una storia drammatica, molto diversa da quella che si è sempre immaginata. «Il velivolo dell’Alitalia non finì su Montagna Longa per un errore dei piloti», spiega il professor Marretta, «ma perché a bordo c’era una bomba che lo rese ingovernabile e costrinse il comandante Roberto Bartoli, il primo ufficiale Bruno Dini e l’ingegnere di volo Gino Di Fiore a tentare la disperata manovra di scarico del carburante nei minuti che precedettero il disastro». Questa non è una semplice ipotesi, ma la conclusione di una perizia tecnica durata 18 mesi e basata sui più moderni sistemi di calcolo computerizzato. L’Associazione dei familiari delle vittime di Montagna Longa ha chiesto alla Procura di Catania, che condusse allora le indagini e i processi, di riaprire il caso e fornire finalmente quelle risposte che mancano da 46 anni. Dice l’ avvocato Giovanni Di Benedetto :« Ci hanno risposto picche, ma non ci arrendiamo». «Nel 1972 avevo 16 anni e ho un ricordo nitido della sera del 5 mag-