EDITORIALE
L’OSSESSIONE DI RIPRENDERSI E DIFFONDERE LA FOTODI SE STESSI, ANCHE INMOMENTI CRITICI
Attenzione: questo editoriale è vietato aiminori di, vediamo, 18 anni? O forse 20, 25? Insomma, è vietato ai più giovani. Non fatevi cattive idee: non parla di sesso, né di violenza. Parla di smartphone e di selfie, e vorrei evitare di essere preso in giro dai Millennials per il mio atteggiamento trogloditico. Perché io, lo confesso, questa mania dei selfie non la capisco proprio.
Una volta c’era l’autoscatto. Era una specie di rito collettivo, o al massimo di coppia. Ci si metteva in posa tutti insieme, possibilmente con uno sfondo decente (mare, monti, città d’arte), e il proprietario della macchina fotografica si doveva ingegnare a trovare un posto dove piazzare l’apparecchio inmodo stabile, affinché la vibrazione prodotta dall’otturatore non lo facesse rovinare a terra. Chino con l’occhio nelmirino, il fotografo cercava di inquadrare almeglio, poi con estrema delicatezza spostava l’apposita levetta e si precipitava a prendere posto nel gruppetto, o al fianco della fidanzata, inalberando un sorriso d’ordinanza che doveva durare almeno una decina di secondi, cioè fino a quando il maledetto aggeggio giapponese non avrebbe scattato lamaledetta foto. Attesa. Lunga attesa, immobili. «L’ha fatta?», chiedeva sempre qualcuno digrignando i denti per non far svanire il tentativo di sorriso. Ma sì che l’ha fatta, dai. E nel preciso istante in cui partiva il «sciogliete le righe»… Clic. Ma nooo! Rifacciamo.
Esisteva anche l’altra modalità, che prevedeva di fermare un passante e chiedere: «Scusi, ci farebbe una foto?». Con la variante estera («Eschius mi, chen iu teic a foto?»). Se possedevi una preziosa Leica o una ipertecnologica, per l’epoca, Nikon il rischio era che il passante se la svignasse con la tua fotocamera, ma bastava scegliere una famigliola e il pericolo era scongiurato. Quegli scatti venivano poi stampati su carta o religiosamente conservati nei caricatori per il proiettore di diapositive (io li devo avere ancora tutti, da qualche parte). Diventavano oggetti fisici di esclusiva proprietà dell’autore, che al massimo li mostrava ad amici e parenti al ritorno dalle ferie, e tutto finiva lì.
Questo avveniva nel Pleistocene, cioè fino a una dozzina di anni fa. Non so bene come sia successo, ma nel giro di pochissimo tempo sono sparite le macchine fotografiche e anche i rullini di pellicola, le diapositive, gli ingranditori per la camera oscura e tutto l’armamentario di chi si cimentava, da dilettante, nello scattare fotografie. Nello stesso tempo sono scomparsi i «telefonini», ormai sostituiti dagli smartphone, che fanno di tutto tranne un buon caffè. E fanno, ovviamente, fotografie. E infine, terzo avvenimento epocale, sono esplosi i social network, che consentono di condividere le foto non con la platea ristretta dei condannati alle serate delle «diapositive delle vacanze», ma in pratica con l’universo mondo. La somma di questi tre fenomeni (morte delle fotocamere, avvento degli smartphone e boom dei social) ha prodotto quell’ossessione di massa che ha preso il nome di selfie-mania.
Le persone non rivolgono più l’obiettivo verso la realtà esterna, ma verso se stesse, e diffondono i propri autoritratti nel cyberspazio, a disposizione di chiunque. Nel bagno di casa seminudi (o nudi), ma anche davanti alle macerie dell’Hotel Rigopiano o a pochi metri da un incidente stradale, insomma in qualunque situazione si senta la necessità di far sapere agli altri: «Io esisto! Io c’ero! E sono un figo pazzesco!». Ha fatto indignare tutti la scena del ragazzo che, alla stazione di Piacenza, si riprende inquadrando se stesso e una donna riversa sui binari con una gamba maciullata da un treno. Ma altri, tanti, ragazzi e ragazze, sono morti e continuano a morire per un selfie nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non la faccio lunga, non voglio trarre una morale dove è difficile perfino individuare una logica. Ma lasciatemi dire ( per questo l’articolo è vietato ai minori, i quali non possono capire) che ho un po’ di nostaglia per il vecchio, caro e raro autoscatto in compagnia.