Alessandro Borghese
«Dagio-vane ho rischiato di annegare sull’Achille Lauro» di A. Greco
Sottobicchieri: ne abbiamo fatti 500. Ne sono rimasti 70. Sottopiatti: erano 250. Ce ne sono ancora 40. Posate…». Prima di iniziare l’intervista, Alfredo, architetto, amico e suo braccio destro recita ad Alessandro Borghese l’elenco delle stoviglie cadute nella battaglia contro i cacciatori di sou- venir. Siamo all’Alessandro Borghese - Il lusso della semplicità, il ristorante milanese del cuoco/manager/ conduttore tv. Qui dentro tutto parla di lui: l’ascensore che porta alla sala da pranzo, quando sale, mostra una parete tappezzata da mille foto di Borghese, ritagliate dai rotocalchi. Per avvertire i passanti che lo chef è presente viene tirata una tenda su una finestra che dà sulla strada, proprio come le bandiere che venivano issate quando il nobile era rientrato nel suo castello, e l’arredamento di tutto il locale riecheggia quello delle grandi navi da crociera sulle quali la star del programma cult 4 ristoranti ha fatto la gavetta. «Lo ammetto, ho
un ego smisurato. A volte penso che dovrei affittare un garage per avere un posto dove parcheggiarlo. Però le assicuro che è un disturbo che colpisce tutti gli chef. Sono in buona compagnia» È stato così fin dall’inizio? «Macché. Ho fatto la gavetta più du-
ra: tre anni tra cucine e cambusa di una nave da crociera, lamitica Achille Lauro. Mi sono imbarcato appena finito il liceo, a 17 anni e mezzo. Mi ricordo ancora il nodo allo stomaco quandomisi i piedi sul primo gradino della scaletta per salire a bordo». Primo insegnamento di quell’esperienza? «Tutto lo si guadagna col lavoro: la stima dei colleghi, la fiducia dei superiori, la soddisfazione per i passi avanti. Quella grande nave da crociera era una caserma: c’era gerarchia, disciplina, ordine. L’orgoglio per la divisa immacolata. Però l’amore per la precisione e la necessità di non risparmiarsi ed essere meticolosi mi sono serviti molto anche dopo. Certo, come in tutte le caserme c’era anche il nonnismo. Ti addormentavi sfinito dopo il turno e qualcuno ti accendeva i fiammiferi tra le dita dei piedi, o tornavi nella tua cuccetta e non trovavi il materasso». Com’è finita? «Nel modo più teatrale e drammatico: con un naufragio. Era il 30 novembre 1994. La nave stava affrontando la lunga crociera di trasferimento, quella che inaugurava la stagione invernale: si lasciava il Mediterraneo per i Caraibi. La sera più importante, quella della cena con il comandante, è scoppiato un incendio in sala macchine. Immagini la paura, la concitazione, i passeggeri, perlopiù anziani, da soccorrere e far salire sulle scialuppe. L’Achille Lauro, poi, ha cominciato a inclinarsi: come è sceso il capitano si sono avvicinati due rimorchiatori che volevano impadronirsi del relitto. Sembravano avvoltoi. Hanno assicurato le loro cime a prua e hanno dato avanti tutta. I motori hanno ruggito e si è alzata una colonna di fumo nero dai loro fumaioli. Come la nave si è mossa, tutta l’acqua che aveva imbarcato è andata a poppa e così si è impennata, trascinando indietro i rimorchiatori, che hanno subito tagliato le cime. Io dalla scialuppa ho visto quella che era stata la mia casa impennarsi e inabissarsi, scendendo giù come un fuso. Giace ancora là, sul fondale, a largo della Somalia. Dopo tre giorni una petroliera, l’Hawaiian King ci ha tratti in salvo. E io ho smesso di essere un cuoco di bordo e sono diventato uno chef di terraferma. Ci furono anche due vittime». Cosa ha fatto tra il naufragio e il successo tv? «Non è stato un percorso rettilineo. Ho lavorato in tanti posti, qualche volta sono stato pure fregato. A Roma con lamia brigata ho avviato un ristorante in centro. Il patto era che alla fine mi avrebbero dato delle quote. Così ci misi il massimo impegno. Dopo il servizio dormivo nel magazzino per essere lì, alle sette del mattino quando arrivava il fornitore col pesce fresco. Poi un giorno scoprimmo che il proprietario, senza dire nulla, aveva venduto tutto e noi eravamo fuori». E poi? «E poi un giorno mentre stavo vagliando delle offerte di lavoro in Cina, mi è arrivata la proposta per lavorare in un piccolo programma di cucina, uno dei primi. E ho scelto la tv. Io ho iniziato a cucinare per passione, guardando mio padre, napoletano, che la domenica si metteva in cucina e preparava i piatti della tradizione. Non immaginavo certo di diventare un volto della televisione.
Mia mamma ( Barbara Bouchet, ndr) in cucina era un disastro. Per lei il cibo è solo carburante, non piacere». E adesso? «Adesso è diverso. Vengono a fare i colloqui di lavoro ragazzi che pensano che stare in cucina sia una sorta di gioco, una via breve per il successo. Invece è un lavoro che esige impegno, precisione, dedizione. Alcuni non durano una settimana, altri nemmeno una mattinata. Pochi restano, e fanno carriera. Da me non conta dove sei nato o che faccia hai: conta solo quanto sei bravo. Questo meccanismo ce l’ho nel Dna. A casa mia se desideravi una cosa dovevi meritartela con l’impegno, sennò te la potevi scordare».
«A CASA MIA PER OTTENERE CIÒ CHE DESIDERAVI DOVEVI MERITARTELO
È il metodo classico. «Desiderare e guadagnarsi le cose è l’unico modo per sviluppare le passioni. Ancora adesso io dissemino il mio futuro con tanti piccoli traguardi da conquistare, così si ha sempre voglia di andare avanti». È consapevole di fare un programma sadico? «Certo. I ristoratori che partecipano all’inizio sono timidi, titubanti. Poi qualcuno rompe la calma e dà voti ingiusti a un altro concorrente. Da quel momento è una corsa al massacro. Siamo arrivati a sfiorare la rissa. Io, quando posso, con i miei voti ristabilisco la verità, ma cerco sempre di essere equo, non penalizzo chi è stato scorretto. Sono lì per giudicare un ristorante, non una persona». Come fa a conciliare ristorante e tv? «Magari fosse solo quello. Con mia moglie, Wilma Oliverio, ho fondato una società, la AB normal. Facciamo catering, food consulting, studiamo arredamenti, soluzioni architettoniche e menu per ristoranti, produzioni tv, eventi… Le mie giornate spesso iniziano alle sei e finiscono sedici ore dopo». Ma è una vita complicatissima! «Macché, le uniche cose difficili sono quelle semplici: come la pasta cacio e pepe».