ALDO GRASSO
IL MANAGER, SCOMPARSO IN UNA CLINICA SVIZZERA, ERA SCHIVOEMISTERIOSO. E, CONTESTARDAGGINE, SI ERA PERMESSO IL LUSSO DI ESSERE UNA VOCE FUORI DAL CORO
Sergio Marchionne è morto in una clinica svizzera per cause che ancora non vengono divulgate; schivo e misterioso, è sfuggito anche nella sua ultima ora. È stato l’uomo che, con il matrimonio Chrysler, ha reso la Fiat il settimo produttore di automobili al mondo, salvando posti di lavoro, senza aver chiuso nemmeno un impianto. Aveva scelto la divisa perenne del maglioncino nero, ne aveva 30, tutti uguali, in ognuna delle sue residenze a Torino, in Svizzera e a Detroit: glieli forniva rigorosamente no logo un amico, con un minuscolo scudetto tricolore sul braccio. Nel mondo imprenditoriale italiano era vissuto come una sorta di marziano. Alla sua morte c’è stata una gara a celebrarlo o a denigrarlo, esagerando forse nell’uno e nell’altro caso. Come sempre, chi sceglie l’agiografia lo fa anche per parlare di sé («quella volta che Sergiomi ha detto…»), chi sceglie l’odiografia non riesce a nascondere le proprie frustrazioni e il proprio risentimento. Marchionne non è stato un semplice “capitalista globale” o un supereoe dell’industria italiana. Senza essere specialisti ma facendo solo uso di buon senso, si può dire che è stato un manager d’avanguardia che, con testardaggine, si è permesso il lusso di essere voce fuori dal coro, mettendosi di traverso a sindacati e Confindustria con un’amara ammissione, ribadita in più occasioni: «Le tute blu pagano spesso gli errori dei colletti bianchi». Per questo, fra i non pochi dissensi, ho trovato particolarmente ingeneroso il giudizio espresso dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi. «Non si deve dimenticare la residenza in Svizzera per pagare meno tasse, il Progetto Italia subito negato, il baricentro aziendale che si sposta in Usa, la sede legale di FCAinOlanda e quella fiscale a Londra», scrive Rossi, sottolineando anche il suo «autoritarismo in fabbrica per piegare lavoratori e sindacati». «Non ho mai capito perché gli operai americani mi ringraziano per aver salvato loro la pelle, mentre quelli italiani la pelle vorrebbero farmela», si chiedeva il capo della Fiat. Nella sua osservazione è condensata l’analisi impietosa, ma profonda, della crisi italiana: il suomerito principale è stato proprio quello di averle dato una svolta decisiva. Come ha scritto Stefano Cingolani: «Nelle relazioni sindacali Marchionne ha segnato uno spartiacque tra l’eterna illusione della conflittualità permanente e il bisogno di cooperazione, di collaborazione tra lavoratori e manager, tra operai e padroni, entrambi in vesti nuove, che l’era globale richiede, come hanno ben compreso la Germania, i Paesi del Nord Europa e persino l’America». Non era un santo, non era un diavolo. Solo un grande manager.
ALLA SUA MORTE C’È STATAUNASORTADI GARA A CELEBRARLO OADENIGRARLO, ESAGERANDO FORSE INENTRAMBI I CASI