Abbiamo provato il “bar americano”: eccocom’è andata
Domenica mezzogiorno, centro di Milano. Fuori dal Reserve Roastery Starbucks c’è una coda ordinata. Riesco a entrare dopo 15-20 minuti. L’ambiente è curatissimo ma molto rumoroso. Sono spaesata: dove ordinare? Dove fare lo scontrino? Sembra un grande magazzino: oltre ai tre banchi, ci sono punti vendita di tazzine, cristallerie, porcellane, caffè in grani; al centro, una grande macchina tostatrice che spara chicchi attraverso scenografici tubi nei vari angoli. Colpisce la quantità di personale: saranno almeno una cinquantina, più la
security («se penso a quanti siamo al pronto soccorso dell’ospedale, mi viene da piangere», osserva un cardiologo). Chiedo a Erti, “partner Starbucks” (così si chiamano i dipendenti), che è albanese e studia infermeria a Milano. Mi spiega che nel banco principale posso «provare un modo diverso di approciarsi alla tazzina», ordinare una delle 115 bevande a base di caffè o un gelato preparato al momento; al Princi Bar, invece, trovo le versioni più tradizionali e i prodotti da forno; infine, al primo piano, c’è il panoramico “Bar Arriviamo”. Vado al Princi Bar, così mi prendo anche una torta; c’è coda,
dopo cinque minuti punto al bar principale: affollato. Vado al “Bar Arriviamo”. Sette persone al lavoro (che diventeranno nove) ma non si capisce chi fa cosa. Si danno tutti molto da fare, ma passano altri minuti (sono le 12.50) e gli espressi non si vedono. È andata peggio alla nostra vicina di sgabello, canadese: ha atteso 20 minuti una pizza, poi se n’è andata (però, signora, perché cerca la pizza da Starbucks?). Finalmente, dopo una richiesta un po’ insistente, arriva il caffè (in tazza, niente bicchiere di carta): è buonissimo, con un aroma che rimane in bocca a lungo. Peccato che sia tiepido.