EDITORIALE
IL PROSSIMO 2 OTTOBRE È LA LORO FESTA: E UNA RICER CADICE CHE SONO I MIGLIORI D’EUROPA
Ecosì, il prossimo 2 ottobre si celebra la Festa dei nonni (e delle nonne, naturalmente). Attenzione: è una ricorrenza ufficiale, che esiste da più di 20 anni ed è stata addirittura sancita per legge nel 2005, anche se in passato si è svolta un po’ in sordina, surclassata della Festa della mamma e da quella del papà. Da qualche tempo si sta prendendo le sue rivincite e se ne parla di più. Per la forza dei numeri, prima di tutto: i nonni in Italia, compresi quelli che hanno intorno ai 50 anni, sono circa 11 milioni! E poi perché i nonni italiani sono i migliori d’Europa: leggere, per credere, il servizio a pag. 98.
Deimiei nonni paterni non ho alcun ricordo. Il papà di mio papà, che si chiamava Umberto come me, morì in un incidente stradale dieci anni prima che io nascessi. Molto tempo dopo, passando in auto davanti al cippo che lo ricordava, sul ciglio di quella strada di campagna, rabbrividivo vedendo il mio nome e il mio cognome… Di nonna Anita non rammento quasi nulla, ero troppo piccolo quando anche lei scomparve.
Ho invece impresse nella memoria le immagini dei nonni materni: la dolcissima Marina e soprattutto lui, Oreste, detto chissà perché Gaudenzio. Faceva il cuoco, oggi si direbbe lo chef, e conobbe quella che sarebbe diventata sua moglie in un albergo di Torino, dove anche lei lavorava. Gestirono per molti anni insieme, con l’aiuto di un manipolo di sorelle di lui, un hotel in montagna, a Usseglio, in Piemonte. Lì trascorrevo i mesi estivi, fin da piccolissimo. Lì il nonno era tutto: padrone, cuoco, direttore, responsabile acquisti, spaccalegna e macellaio. Un omone, ai miei occhi grande e grosso, burbero e traboccante energia. Cucinava su una enorme stufa di ferro a legna, apriva e chiudeva i fori rotondi sulla piastra di cottura utilizzando dei cerchi concentrici per regolarne il diametro. Sbuffava, comandava, erogava risotti e pietanze a ripetizione. Si risparmiava solo il servizio ai tavoli e dietro il bancone del piccolissimo bar, dove intorno ai dieci anni di età fui comandato io (sfruttamento del lavoro minorile? Ebbene sì, allora funzionava così, e io ne ero ben felice). Ricordo che il nonno mi trascinava sui sentieri alpini per andare a comprare un vitello ai pascoli alti, poi mi faceva assistere da vicino alla brutalità dell’esecuzione e della susseguente macellazione. La sera, apriva il librone nero dei conti e, in cucina, attorniato da me, mia mamma e le zie (ovviamente non c’erano dipendenti esterni), celebrava il rito della contabilità quotidiana, segnando con la sua calligrafia fine e ordinata ciò che i vari clienti avevano consumato durante la giornata. «Ariaudo?», chiedeva lui. «Due caffè e un Fernet», rispondevo io. «Pautasso?». «Una China calda, due Punt e Mes».
Mi adorava, ma era anche capace di sonore sfuriate (al grido di: «Boia faus!»). Finita la stagione estiva l’albergo chiudeva e lui e la nonna venivano a svernare in pianura, dove abitavamo. Per anni aveva gestito anche qui un ristorante, la mitica Trattoria dell’Orologio, ma negli ultimi tempi il locale era passato dimano e lui, ormai anziano, nella Bassa e lontano dalle sue montagne un po’ si spegneva. Un giorno, mentre mi accompagnava alle giostre, svenne e cadde in terra. Mi spaventai moltissimo, arrivò subito un sacco di gente, qualcuno mi riportò a casa. Di lì a non molto anche il nonno Oreste ci lasciò.
Da lui, e da mio padre, ho imparato una lezione fondamentale: il valore sacrale del lavoro. Il massimo impegno per fare le cose e portarle a termine, senza risparmiarsi, senza lamentarsi. Il senso del dovere, insomma, che oggi tutti noi, padri o nonni, fatichiamo a trasmettere a figli e nipoti, in unmondo in cui sembrano avere cittadinanza soltanto i diritti. Talvolta invocati a gran voce anche quando non sono tali.