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BigMac Il celebrepan­ino compie 50 anni di M. Aprile

NEL 1968, L’ ITALO AMERICA NODELLI GATTI EBBE L’ INTUIZIONE, MA FU UNA SEGRETARIA 21 ENNE A TROVARGLI IL NOME GIUSTO. NE MANGIAMO 20 MILIONI L’ ANNO. UN SOCIOLOGO SPIEGAPERC­HÉ, COME LA NUTELLA, NON PASSA DI MODA

- Di Marianna Aprile

Avvertenza: in queste pagine citiamo marchi e prodotti. Non è pubblicità, è che il panino più famoso del mondo, il Big Mac, compie 50 anni e siccome in Italia ne mangiamo 20 milioni l’anno, è un compleanno difficile da ignorare. Difficile però anche non chiedersi come, dalla cittadina di provincia della Pennsylvan­ia dove fu inventato, abbia conquistat­o le tavole di mezzo mondo e contagiato gli scieneggia­tori di filmdi successo.

L’IDEA DI ESTHER

Una delle ragioni ha a che fare con la sua storia: lo inventò un ragazzo italoameri­cano, Jim Delligatti, gestore di un fast food McDonald’s, raddoppian­do l’hamburger e aggiungend­o alla ricetta il pane al sesamo, pomodoro, formaggio, insalata e altro. Solo che Jim fece il clamoroso errore di chiamare questo panino Aristocrat. Alla gente non piacque e lui lo ribattezzò Blue Ribbon Burger. Invano. Finché Esther, una segretaria di 21 anni, propose di

Aveva un fast food ania Pennsylv in

chiamarlo Big Mac. Fu un successo ed entrò nelmenu di tutti i McDonald d’America. «Nella comunicazi­one di un prodotto ci sono due dimensioni che lavorano simultanea­mente, contenuto e forma. Se sono coerenti tra loro, il prodotto diventa un simbolo senza tempo. Quando poi ha un nome che riesce a rendere quella coerenza (come nel caso di BigMac, Nutella, iPhone) gli ingredient­i ci sono tutti», dice il professor Vanni Codeluppi, che insegna Sociologia dei media all’università IulmdiMila­no e ci spiega anche il motivo per cui, una volta creati, questi prodotti-simbolo non invecchian­o mai: «Il Big Mac continua a comunicare una realtà culturale, quella americana, che si rinnova continuame­nte; incarna l’idea stessa che abbiamo di americanit­à, per noi europei da sempre foriera di novità e nuovi modelli». E infatti quando negli Anni 80 i fast food arrivarono in Italia, rivoluzion­arono la conviviali­tà del pasto: «Fino ad allora, il nostro modo di mangiare seguiva regole ferree; i fast food hanno “liberalizz­ato” orari, abolito formalismi e modalità del consumo convi-

viale del pasto. Un po’ come i jeans hanno reso più informale il modo di vestire». Ma - nome azzeccato a parte - perché tra tanti panini, non solo di McDonald’s, proprio il Big Mag diventa icona? «C’entra anche il momento in cui nasce, il 1968, in piena espansione economica, in una società che aveva fiducia nel futuro. Un contesto fertile, perché quando una società vive un momento di benessere si crea un clima favorevole alle novità culturali». In Italia i periodi di boom economico latitano da un po’, diciamo che da un po’ non si inventano panini. «L’ultimo boom che si ricordi da noi è quello degli Anni 80, in cui abbiamo “sco- perto” il Made in Italy e lo abbiamo “imposto” al mondo». Guarda caso, gli anni dei paninari. Dai panini non si esce... «Quella dei paninari è stata l’unica vera subcultura giovanile creata dall’Italia ed esportata all’estero. Lo spunto fu proprio l’arrivo dei fast food, di quel modo americano di mangiare, da cui i ragazzi partirono per creare, col Moncler, le Timberland, uno stile che non esisteva. Sono processi che si innescano nei periodi di benessere, quando non dovendosi preoccupar­e del necessario si elabora e si dà spazio alla creatività», dice Codeluppi. Per ora, qui, niente panini nuovi, però. «Le difficoltà economiche dell’Italia hanno ricadute culturali, da un po’ non produciamo più novità. Anche per questo, i prodotti simbolo di opulenza (come il BigMac) continuano ad aver fortuna: permettono di “consumare” l’esperienza dell’ottimismo».

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L’ESPERTO DI CONSUMI Il professor Vanni Codeluppi, 60.

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