Oggi

« Sto perdendo la vista, nonquella curiosità chemi riempie lavita »

DATREANNI COMBATTECO­NTROUNGLAU­COMA, MANONSI ARRENDE: «HO RITROVATO ILGUSTOCHE­AVEVODABAM­BINOPERLER­IME», SPIEGA ILCRITICO EDISEGNATO­RE MODENESE, CHEFIRMAL’AUTOBIOGRA­FIACONUNLI­BRODI AFORISMIEU­NOSPECIALE­TV

- Dall’inviata Marianna Aprile - foto Davide Lanzilao/Contrasto

Quando era bambino, un dottore disse a Vincenzo Mollica che un giorno la vista lo avrebbe tradito. Lui non era mai riuscito a immaginars­ela, quella vita senza luce né colori, e forse per esorcizzar­la l’ha riempita di cinema, fumetti, arte. «Assieme alla musica, le passioni che per 40 anni ho potuto coltivare lavorando e scrivendo tanti libri», racconta, nel suo studio al Tg1, pieno di cimeli e dediche (da Mina a Celentano, da Fellini a Panelli, impossibil­e censirli tutti). A spegnere i colori è da tre anni un glaucoma, «un ladro silente di vista» che un giorno dopo l’altro completa la sua subdola rapina. «Ora che la vista mi si è ristretta, si è ristretta anche la scrittura e ho ritrovato il gusto che avevo da bambino per le rime». Ne sono nati due lavori complement­ari: un libro di aforismi in rima ( Scritto a mano, pensato a piedi, RaiLibri) e uno Speciale Tg1 ( A occhio nudo, l’arte di non vedere, su RaiPlay). Insieme, compongono una stramba autobiogra­fia di Mollica. Ma se il video è un viaggio corale sul rapporto tra la vista e l’arte, il libro è un percorso solitario tra ricordi evocati da brevi versi. «Omerico non fui per poesiama per mancanza di diottria», dice lui con ironia (ops...). «Ho sempre amato le rime, perché cercandole trovi verità nascoste, cose che non sapevi neanche di cercare. Una volta Fellini mi disse che per le rime ho la pazienza dei carcerati. Ed è vero».

PAPERICA SULLA LAPIDE

Come ogni cronista, per una vita Mollica ha appuntato in ordine sparso spunti e pensieri su centinaia di quadernett­i. «Diventavan­o le basi per i miei libri. Per questo libro, invece, è stato centrale l’iPhone: gli aforismi li dettavo a Siri, che li scriveva per me. E i disegni che ho

inserito, ispirati ad Andrea Pazienza e Keith Haring, li ho disegnati con le dita grazie a un’app». Un’autobiogra­fia vera e propria non ci sarà: «Non farò mai un libro di ricordi, di cui esisterà solo il titolo: Prima che mi dimentichi tutto », dice serio. Poi, per stemperare, confida: «Oltre a mia moglie Rosa Maria e a mia figlia Caterina, ho avuto due grandi soddisfazi­oni nella vita: so- no diventato Vincenzo Paperica, papero protagonis­ta di 13 storie di Topolino; sono stato una domanda orizzontal­e e anche verticale nei cruciverba della Settimana enigmistic­a ». E a proposito di sua moglie: «Le ho dato disposizio­ni precise: quando morirò, sulla lapide voglio un’immagine di Paperica e la scritta: “Qui giace Vincenzo Paperica che tra gli umani fu Mollica”».

QUEL GIORNO CON PRATT DA LOUISE BROOKS

Ma torniamo agli aforismi. Alcuni sono omaggi espliciti: a Loren, Chaplin, Mastroiann­i, Mina, Celentano. Ma la maggior parte evoca personaggi il cui nome è rimasto nella penna. Pardon, nell’iPhone. Per esempio: Una risata festosa/nasconde sempre una lacrima dolorosa. «È scritto per Totò. Ho fatto otto anni di ricerca sulle sue canzoni e ho capito che alla fine delle sue risate arrivava sempre una piega amara del volto a tradire la fame e la sofferenza del passato». E ancora: Per essere più ammirata/si vestiva pensandosi spogliata. «Brigitte Bardot, Rita Hayworth erano così, e per quello hanno segnato un’epoca, imponendo un tipo di femminilit­à tutto loro. Ma la vera ispiratric­e di quel verso è Louise Brooks, la mia passione. L’ho sempre ammirata e l’ho anche conosciuta», dice. Mollica era entrato in contatto con lei tramite Guido Crepax, che l’aveva eletta a musa della sua Valentina. «Ci scrivevamo, e quando Hugo Pratt inserì in un suo libro su Corto Maltese una ballerina che si ispirava a lei, glielo inviai». Poi un giorno, durante un lungo viaggio che Mollica fece proprio con Pratt dal Canada a New York, l’incontro: «Mentre viaggiavam­o ho visto il cartello “Rochester”, dove viveva Louise. Siamo usciti dall’autostrada e pochi metri dopo eravamo davanti alla porta di casa sua. Suonammo e lei - ormai in là con gli anni - venne ad aprire con una vestaglia azzurra, occhi chiari e lucenti. Gli dissi che ero quel Vincenzo e che accanto a me c’era l’autore del libro che le avevo inviato. Ci fece entrare nella sua casa povera e dimessa e ci guidò fino alla libreria, su cui era esposto il libro. “Questo marinaio mi fa molta compagnia”, disse. Poi iniziò a raccontare aneddoti su Clarke Gable, Humphrey Bogart...». Finché non bussarono alla porta: «Era Pasquale, un musicista siciliano che ogni sera alle 18 le portava una minestra calda, le suonava una canzone napoletana e poi se ne andava a esibirsi nel night club in cui lavorava. Questa era Louise, che si vestiva pensandosi spogliata, senza conoscere volgarità». Dietro il verso Troppe ciabatte si credono scarpe/troppi fazzoletti si credono sciarpe sembra invece di scorgere una critica all’ambiente televisivo della Rai. «Non c’è molta Rai in questo libro. Quel verso si riferisce a una categoria sempre più corposa di gente che è poca cosa, ma ostenta tanto. La loro non è mediocrità, perché la mediocrità ha già qualcosa dentro, questi sono ancora peggio. È come se questa massa di gente fosse un corpo solo, ne vedi uno, ma quello ingloba tutti gli altri come una matrioska che però, al centro, non ha nulla».

BETTY BOOP E CATERINA

Mentre parla, alle sue spalle si nota una Betty Boop ritratta alla maniera di Tamara De Lempicka. «L’ho dipinta io quando è nata mia figlia Caterina. Era uguale a Betty. Mi inventai anche un finto movimento artistico clandestin­o del Novecento, il Boop- pismo, basato sull’idea che i pittori più famosi - da Picasso a De Chirico - venissero contagiati e infilasser­o Betty nei loro quadri. Creai un carteggio tra due grandi critici d’arte che disquisiva­no del movimento... La verità è che io mi sono sempre divertito tantissimo. Che sono grato a questo lavoro per gli incontri incredibil­i e le amicizie uniche che mi ha regalato». Ecco, “regalato”. L’abuso di questo participio passato ha fatto di Mollica un giornalist­a assai criticato (ops...). «Non me ne sono mai fatto un problema, sono un critico, sono un cronista. Racconto quello che vedo e sento, e se devo criticarlo preferisco l’arma dell’ironia alla stroncatur­a secca», spiega. Altro aforisma: Saper uscire di scena/è un’arte che vale la pena. A chi pensava, scrivendol­o? «Ai tanti che non si sono ritirati al momento giusto e che sono ancora a piede libero. Mina, Carosone, Battisti... loro sì che hanno saputo capire quando eclissarsi. Ma non è da tutti». E proposito di un ritiro suo, se la cava così: «Fellini un giorno mi confidò: è la curiosità che mi fa svegliare la mattina. E io sono curioso».

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