SandroMayer Il ricordodi PaoloOcchipinti eMaria Venturi
«SIAM OSTATI I COPPIE BAR TALI DEL GIORNALISMO POPOLARE ITALIANO», SCRIVE LO STORICO DIRETTORE DI «OGGI». CHE QUI RIPERCORRE BATTAGLIE, SCONFITTE E BATTUTE TRICOLOGICHE. «VOLEVA ENTRARE NEL CUORE DELLA GENTE: C’ È RIUSCITO»
Se è vero, come scrive John Donne, «che la morte di ogni uomo mi diminuisce», quella di Sandro Mayer mi diminuisce tre volte. Con lui ho perso un rivale irriducibile eppure di grande fair play; un collega di enorme valore; una specie di fratello professionale, ed è da questa parentela “postuma”, di cui in un certo senso mi accorgo solo ora, che vorrei partire. Siamo entrambi cresciuti, come molti giornalisti della mia generazione, alla scuola diVittorio Buttafava. Solo che io ne assorbii il lato razionale, il gusto per l’esposizione semplice. Sandro prese l’altra metà, la capacità di scrivere con il cuore e con la pancia, di porsi come il “curatore” delle emozioni dei lettori. L’ho incrociato per la prima volta mezzo secolo fa: nel 1967 io andai a Novella, lui stava qualche corridoio più in là, in quell’Oggi che sarebbe diventata la mia casa. Quando lo raggiunsi, nel 1976, ci trovammo, giovanissimi, a occupare posti cruciali: io presi i gradi di direttore e lui faceva l’inviato. Era di quelli che portava sempre a casa l’osso, non sbagliava un colpo. Ricordo che adorava viaggiare: la direzione, che era già nel suo destino, l’avrebbe costretto a una sedentarietà che gli è sempre pesata. La nostra convivenza durò pochi mesi: Sandro andò a dirigere prima Bolero e poi Gente. Così per decenni siamo stati i Coppi e Bartali del giornalismo popolare, io con la mia impostazione laica e illuminista, lui con uno
slancio romantico e religioso che crebbe con gli anni. Gente e Oggi hanno diviso in due l’Italia, ci siamo spartiti i lettori con una voracità e un’esclusività impossibili da rintracciare nel mercato di oggi: vendevamo milioni di copie, i nostri scoop facevano il giro del mondo. Io gli invidiavo quel saper scovare storie incredibili, e rispettavo anche quel suo lato che, visto da fuori, poteva sembrare svenevole. Fece titoli e colpi leggendari: il filone inesauri- bile di Padre Pio, le cronache di animali eroici che salvavano i padroni, i ritratti di quei gattini che ora spopolano sul web. Mayer era soprattutto questo: una parabola finissima nell’intercettare gli umori e i desideri della gente. Le nostre battaglie per i servizi più esclusivi erano epiche. Qui vorrei ricordarne una che persi: le primissime immagini di Stéphanie di Monaco con il nuovo fidanzato Daniel Ducruet. Per giorni e notti ci immergemmo in trattative lunghe e segrete coi fotografi, alla fine la spuntò lui. Fu la sconfitta che più m’è bruciata in carriera. Anche la nostra proverbiale durezza in redazione era fatta di materiali diversi: io rampognavo con freddezza, creavo il gelo; lui, mi dicono, faceva sfuriate memorabili, che però sfiammavano in un giorno. E poi creò un marchio, con la pretesa che sulla copertina dei suoi giornali comparisse prima lo “striscione” «diretto da Sandro Mayer» e poi pure la sua foto. Per non parlare di quei capelli: quando lo incontravo, lo prendevo in giro per quella che era con ogni evidenza una parrucca. Ma lui mi rispondeva invariabilmente che erano capelli suoi, che aveva scoperto un metodo per farli ricrescere. E io obiettavo ridendo: «Sandro, ma se fosse vero in giro ci sarebbero milioni di uomini con la tua capigliatura fulva!». D’altronde, era un genio: con l’aiuto di Cairo, un altro fuoriclasse con un olfatto impareggiabile per i gusti del pubblico, ha creato il miracolo giornalistico di DiPiù, andando a scompigliare un mercato che si credeva non solo saturo, ma anche superato. Meglio: quei due si sono inventati un nuovo pubblico. A un certo punto, fummo rivali pure in tv: io curavo le interviste per Domenica In, lui per Buona Domenica. Avvertii subito la stanchezza, dopo un mese ero esausto: lavorare a Roma fino a sera la domenica e poi riprendere in mano il giornale lunedì mattina era massacrante. Così, una volta gli chiesi: «Ma non sei stanco?». E lui ribatté: «Ma io mi diverto moltissimo, e sai la cosa che più mi dà soddisfazione? Quando scendo dal treno a Roma e le signore mi fermano per dirmi: “Ma lei è quello della televisione?”». Non era vanità, lui aveva il culto di essere popolare, di entrare nel cuore delle persone. Ci sei riuscito, Sandro. Non sai quanto.