In Grecia ho visto bambini in fuga dalla guerra finire in un lager
I l campo profughi di Moria, sull’isola greca di Lesbo, è un inferno. Pensato per accogliere non più di 3 mila persone, ne ospita invece oltre 14 mila. I ripari sono di fortuna, le malattie la quotidianità. Qui approdano da Afghanistan, Siria, Iraq, paesi in guerra. Qui l’esasperazione può tramutarsi in incendi mortali, come è capitato di recente. Tra le iniziative di Medici Senza Frontiere, c’è una clinica pediatrica che somministra oltre 100 visite al giorno. Mentre Alessio Boni, dopo due giorni in quella drammatica realtà, può offrire la sua testimonianza.
Cosa l’ha più toccata?
«I bambini rappresentano lo specchio dell’atmosfera in quel posto. Quando sono stato in Africa, ad Haiti, in Indonesia o Sudamerica, bene o male ho incontrato sempre il sorriso di un bambino. Qui invece scappano da una guerra e ci sono piccoli di 5- 6 anni che ricordano una realtà diversa. Magari sono figli di un laureato e di una professoressa che hanno dovuto abbandonare tutto e, sognando l’Europa civile dopo il viaggio in mare lautamente pagato a dei bastardi, si ritrovano invece in un lager. C’è un reticolato alto 5 metri, col filo spinato. Condizioni igieniche inesistenti: non c’è acqua e nemmeno coperte contro il freddo della notte. Questi bambini fanno disegni cupi, nefasti, di guerra. Non sorridono. Alcuni di loro hanno cominciato a procurarsi lesioni e c’è un’equipe MSF di salute pediatrica che offre sostegno. Questi piccoli non hanno prospettiva, io li avrei presi e portati via. Togliere la voglia di giocare, la stessa identità, è l’omicidio più grosso che può fare uno Stato. La situazione di Moria perdura da anni ma nessuno ne vuole sapere».
In che modo possiamo dare un aiuto?
«Lancio un piccolo appello: rinunciamo anche a un solo caffè al mese, tutti. Non cambierebbe il bilancio neppure di un precario, ma laggiù farebbe la differenza».
Lei ha sempre prestato volto e forza a numerose campagne sociali. Da cosa le arriva questa coscienza così radicata?
«A me sembra normale. Non ho voluto mai stare dentro il mio orticello, io vivo nel mondo. Quello che succede a Lesbo a noi è già capitato. Pensiamo alle due guerre mondiali: quanti si sono rifugiati in America, quanti sono stati accolti a New York ed eravamo dei pezzenti! Siamo gli immigrati numero uno: perché a questo non ci pensiamo? Basterebbe poco, l’ho detto: un caffè».