Maratona Telethon
«LEONARDO FACEVA TRASFUSIONI OGNI 15 GIORNI, ORA GIOCA A RUGBY ED È FELICE», DICE EMANUELA. CHE QUI RACCONTALA SUA CORAGGIOSA BATTAGLIA A LIETO FINE
La storia di Leonardo guarito dalla talassemia grazie alla fondazione
Da grande, Leonardo farà il cantante. «Vuole diventare come Emis Killa, il suo mito», ride mamma Emanuela Piras. Nell’attesa, questo bel bimbo moro di nove anni diMonastir, nelCagliaritano, va a scuola, suona la chitarra, gioca a rugby, organizza sfide di videogiochi con i suoi amici Filippo e Federico. Una vita normale, finalmente. Perché fino a tre anni fa Leonardo, malato di talassemia, faceva avanti e indietro dall’ospedale di Cagliari per sottoporsi alle trasfusioni di sangue. Se oggi sta bene, il merito è delle cure del professor Alessandro Aiuti e del suo staff dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano, che l’hanno guarito per mezzo della terapia genica.
Una storia a lieto fine - come quella degli altri piccoli malati di patologie rare che raccontiamo in queste pagine - che è cominciata come un calvario. «Miomarito Stefano e io siamo portatori sani di talassemia, sapevamo che il rischio di avere un bimbo malato c’era», spiega mamma Emanuela. «Il nostro primogenito Edoardo, però, era nato sano. E speravamo tanto fosse così anche per Leonardo».
Quando avete capito che qualcosa non andava?
«I medici ci hanno convocati subito dopo il parto: quando ci hanno detto che Leonardo era talassemico è stato come un pugno nello stomaco».
Cosa significa per un bambino nascere talassemico?
«Significa che è gravemente anemico, che il suo sangue è malato. Significa che Leonardo ha cominciato a sottoporsi a trasfusioni quando aveva sei mesi, ogni due settimane. I buchi con l’ago, la vena che non si trovava mai,
ogni volta era un tormento. Un bimbo talassemico vuol dire avere a che fare, ogni giorno, con la commiserazione della gente, con gli sguardi pietosi, perché in Sardegna la talassemia è molto diffusa ma circondata ancora da tanta ignoranza. Ma soprattutto, io e miomarito avevamo paura per il suo futuro».
Perché?
«Per un talassemico le trasfusioni sono indispensabili, ma a lungo andare il suo cuore ne esce gravemente danneggiato. A oggi, un malato di talassemia che vive più di 40 anni è unmiracolo. Sarebbe servito un trapianto di midollo, ma per mio figlio non si trovavano donatori pienamente compatibili. Non sapevamo come fare. Poi, tre anni dopo l’arrivo di Leonardo, avemmo una sorpresa».
Cioè?
«Ero di nuovo incinta. Dopo due maschi aspettavo una bambina, ero al settimo cielo. Finché, subito dopo la nascita di Maria, scoprimmo che anche lei era malata di talassemia».
Come si vive con due bambini malati?
«I viaggi per le trasfusioni raddoppiarono: una volta Leonardo, la volta
PER SEGUIRLO ABBIAMO LASCIATO CASA E LAVORO,
MA I MEDICI SONO STATI ECCEZIONALI
dopo volta Maria. Entrambi con gli stessi rischi di vivere poco e male. Un giorno guardai in faccia miomarito e gli dissi: “Dobbiamo trovare una soluzione, deve esistere un’altra strada”».
Come l’avete trovata?
«Venni a sapere che il professor Aiuti avrebbe tenuto una conferenza a Cagliari sulla terapia genica, ovvero l’infusione di cellule staminali per correggere il Dna. Per Leonardo era l’unica speranza. Alla fine del convegno avevo già deciso, ci saremmo rivolti a lui. Non posso dirle la gioia quando ci chiamarono da Milano: Leonardo sarebbe stato sottoposto a terapia genica, per Maria invece c’era un donatore per il trapianto».
La salvezza.
«Prima di tutto, la paura: le terapie potevano funzionare, ma anche fallire. È stato in quel periodo che ho cominciato a pregare. Io, che non ero mai stata particolarmente credente, ho ritrovato Dio».
Cos’avete detto ai bambini? «Maria aveva tre anni, era ancora piccolina. Ma a Leonardo, che ne aveva sei, spiegammo tutto: che c’era un bravo dottore che l’avrebbe curato, ma avremmo dovuto trasferirci. Siamo partiti tutti per Milano, io, miomarito e i tre bambini. Abbiamo trascorso un anno in una città mai vista prima, dove non conoscevamo nessuno, circondati da persone speciali, dentro e fuori l’ospedale. Se abbiamo potuto farlo è stato solo grazie a Telethon che ci ha trovato casa, ci aiutava a sostenere le spese e ha trovato una scuola per Edoardo, il più grande».
Cosa ricorda di quei giorni? «Ricordo Leonardo nella sua stanza d’ospedale, dove bisognava entrare bardati come astronauti per evitare di portare batteri e virus. Ricordo il rumore della ventola d’areazione che non si fermava mai. E ricordo il conto alla rovescia di quei cento giorni, dopo l’infusione di nuove cellule staminali, che servivano per dichiarare mio figlio finalmente fuori pericolo. Fino al bel sorriso del professor Aiuti, che mi disse: “Gli esami del sangue sono a posto, potete tornare a casa”». È stata dura.
«Sì, ma ce l’abbiamo fatta: sia Leonardo cheMaria oggi stanno bene».