Silvio Garattini
«Per diventare uno scienziato ho lavorato anche in un’acciaieria»
Sulla scrivania di Silvio Garattini all’Istituto Mario Negri, di fianco ai documenti impilati in perfetta simmetria, c’è una foto senza cornice appoggiata al portapenne. È quella di suamoglie Annie, una signora francese bella e bionda, scomparsa un anno fa. «Ha lasciato un vuoto immenso...», dice il professore, sfiorandola con le dita. 91 anni che sembrano 70, luminare della farmacologia mondiale, uomo coltissimo e schivo, di solito Garattini non ama parlare di sé. Ma nella sua autobiografia Il guerriero gentile, appena uscita in libreria, si scoprono di lui aspetti curiosi. Che ama stare ai fornelli, e la sua ricetta del pollo ripieno è finita perfino su una rivista di cucina. Che, da buon bergamasco, è un tifoso sfegatato dell’Atalanta. Che anni fa tornò al lavoro una settimana dopo un infarto, «perché a casa mi annoiavo». E che per farlo innamorare di nuovo a 65 anni, già vedovo e padre di cinque figli, bastò una nuvola di zucchero filato.
Ci racconti.
«Avevo appena incontrato Annie a un evento dell’Ambasciata francese di Roma. Prima che potessi accorgermene eravamo per strada a passeggiare, a parlare di arte, di musica, di teatro.
E non so come mi trascinò ridendo a mangiare lo zucchero filato, una cosa che non facevo da secoli».
Ho capito, fu un colpo di fulmine. ( sorride e abbassagli occhi) «Fulaprova che il cuore sa battere forte anche quando non si è più ragazzini».
Che donna era sua moglie?
«Una donna eccezionale, solare, trascinante. Per me, che sono timidissimo, è stata una compagna preziosa: mi spronava a uscire, a parlare con la gente. “Sorridi!”, mi diceva, quando mi vedeva in difficoltà».
Mai scocciata per il suo lavoro? «Tutt’altro, Annie era lamia prima alleata. Sapeva leggere le persone come nessuno, aveva un sesto senso per capire chi valeva davvero. Anche questo mi manca molto».
Lei ha avuto una carriera scientifica clamorosa, ma il suo primo impiego è stato in un’acciaieria.
«Ècosì. Dopo aver frequentato l’istituto tecnico avevo deciso di fare l’università, ma a quei tempi ci si poteva iscrivere solo se si era fatto il liceo. Così, mentre di notte studiavo per dare la maturità scientifica, di giorno lavoravo alle acciaierie
Dalmine, alle porte di Bergamo, per dare unamano in famiglia. Mio padre era un impiegato di banca, non navigavamo nell’oro».
Ecco, suo padre. Quanto ha contato nella sua educazione? «Moltissimo. Mi ha insegnato lui a pensare con la mia testa, a non mollare un lavoro finché non è ben fatto.
Quando a scuola mi fecero fare il capogruppo dei Balilla lui, antifascista convinto, si arrabbiò moltissimo e mi fece buttare tutti i parafrenalia: “Ma non vedi che quelli non ragionano?”. E quando gli facevo leggere i miei temi, li stracciava finché non li riteneva perfetti. Oggi può sembrare troppo, ma furono insegnamenti fondamentali».
Ha militato a lungo nell’Azione Cattolica. Come si concilia la fede con l’essere un uomo di scienza?
«Sono piani diversi, si può essere scienziati e credere in Dio allo stesso tempo. E poi, sia la fede che la scienza hanno a cuore gli ammalati, il sollievo dalla sofferenza. Non c’è conflitto».
Insomma, professore. Ai tempi bui dell’emergenza Aids la Chiesa osteggiava la trasmissione di spot sui profilattici sulla Rai. «Va bene, talvolta qualcosa non coincide, ma sono incongruenze temporanee. Prenda il suicidio assistito...».
Appunto, lei è d’accordo?
«Con la dovuta regolamentazione, sì. Aiutare un malato nelle sue volontà è un atto d’amore, sempre. Ma trovo che il problema cruciale sia un altro: chi è malato deve essere aiutato a vivere in dignità. Servono più strutture specializzate, più accoglienza, più umanità».
Nel vostro istituto lavorano centinaia di ottimi ricercatori, ma sia sincero: oggi lei consiglierebbe a un giovane di restare in Italia? «No. In Italia la ricerca è alla miseria. Ed è terribile, perché senza ricerca non c’è cultura, non c’è innovazione».
Avrebbe mai detto, quando lavorava in fabbrica, che sarebbe arrivato fin qui?
«No, la mia unica preoccupazione era fare bene quel che c’era da fare, una cosa alla volta. Ancora oggi vorrei fare di più. Ma a 91 anni, so che ogni giorno è un regalo».