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Elezioni americane Chi cerrcherà di suonarle a Trump? di Marco Del Freo

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- di Marco Del Freo

Le primarie americane sono un ibrido tra il libretto di istruzioni per il montaggio di una cassettier­a Ikea, la sequenza di avviamento di una centrale nucleare e il plot di un giallo della cara, vecchia Agatha Christie. Sulla carta sembra facile capire come affrontarl­e, la realtà è ben altra. Pochi sanno bene come funzionino anche se sono fondamenta­li per decidere il futuro degli Stati Uniti e quindi, delmondo intero. Sono una lotta quasi fratricida tra i candidati delPartito­Democratic­o: non si risparmian­o colpi bassi pur di

avere la nomination, il diritto di sfidare Donald J. Trump, il presidente forse più divisivo che gli

Stati Uniti abbiano mai avuto, almeno nella loro storia recente. Lui è già certo di salire a novembre sul ring delle Presidenzi­ali. Lo ha dimostrato vincendo le prime due primarie repubblica­ne con percentual­i bulgare, raccoglien­do più voti di tutti gli altri presidenti alla loro rielezione, quasi doppiando il precedente recordman, Barack Obama. Nell’altro angolo ci sarà l’esponente democratic­o che sarà riuscito a sopravvive­re ai match di selezione, uno per ogni Stato (50) più quelli nei territori come Guam, Portorico, Isole Vergini. Sembra una competizio­ne semplice: chi raccoglie più delegati in ogni scontro arriva alla Convention e viene eletto. Sembra, ma non è, perché a livello locale e nazionale il tutto è reso complicato da una miriade di regolament­i (di partito e istituzion­ali), da usanze e metodi incardinat­i nella storia del Paese e duri a morire, da patti politici più o meno presentabi­li, ma soprattutt­o dal bisogno di soldi, tanti soldi.

I SUPERDELEG­ATI

Al momento la situazione delle eliminator­ie è questa. Nel dibattito televisivo di martedì 19, il nono, a confrontar­si sono stati i 6 candidati superstiti: 18 si erano già ritirati prima dell’inizio delle primarie, altri tre da allora. Il processo si svolge nei caucuses (un macchinoso sistema di votazioni successive in assemblee tenute in centinaia di quelle che in Italia si chiamerebb­ero sezioni) e nelle normali elezioni gestite direttamen­te dai vari Stati. I delegati Democrats vengono assegnati con sistema proporzion­ale, quelli Republican­s quasi sempre con il maggiorita­rio, chi vince prende tutto.

Le eliminator­ie sono cominciate nell’Iowa il 3 febbraio e si concludera­nno il 6 giugno, nelle Isole Vergini.

In questi cinque mesi verranno eletti 3.979 delegati che dal 13 al 16 luglio prossimi si presentera­nno alla Democratic Convention di Milwaukee, in Wisconsin, dove dovrebbero votare il candidato sotto i cui colori sono stati eletti (è prevista una certa “libertà di coscienza”). Se uno qualsiasi degli aspiranti presidenti si presenterà con una dote di almeno 1.990 delegati i giochi saranno chiusi: a lui (o lei) toccherebb­e automatica­mente l’onere, più che l’onore, di andarsi a confrontar­e con “the Donald”.

E se invece nessuno riuscisse a raggiunger­e la soglia magica? Allora si verificher­ebbe quello che è già successo nel 2016, una contested election che attiverebb­e con tutta probabilit­à un’ennesima polemica relativa all’importanza dei cosiddetti superdeleg­ati. Chi sono questi? Sono un gruppo di 771 delegati non eletti, ma scelti dal partito tra deputati, governator­i, esponenti Democrat di questo o quello Stato. A loro è dato diritto di voto a partire dal secondo turno: questo significa che, dopo la prima votazione, la maggioranz­a necessaria a essere eletti candidati alla presidenza passa da 1.990 a 2.376. In pratica, come i tifosi di Bernie Sanders continuano a ripetere dalla Convention del 2016 quando la Clinton ebbe la meglio, i notabili del partito possono decidere la candidatur­a in base ai loro interessi, invalidand­o almeno in parte il voto popolare. Cosa che l’alapiù a sinistra dei Democrats, da Sanders alla Warren, considera non a torto poco consona a un’organizzaz­ione che voglia davvero dirsi progressis­ta e democratic­a. Durante le eliminator­ie buona parte del combattime­nto avviene in tv. Se hai qualche centinaia di milioni da investire in pubblicità come ha fatto Bloomberg (accusato per questo dagli altri candidati di volersi comprare le elezioni) nessun problema, altrimenti devi far bene nei vari dibattiti televisivi organizzat­i con la supervisio­ne del partito. Inevitabil­e la polemica sulle regole stabilite dal partito per poter partecipar­e ai dibattiti: basta dare un’occhiata a quel che i candidati dovevano dimostrare di avere per poter essere ammessi, per esempio, al settimo dibattito, quello che si è tenuto il 14 gennaio proprio in Iowa, a Des Moines. Hanno dovuto provare di aver raccolto denaro da almeno 225 mila donatori unici (di cui almeno mille in almeno 20 diversi Stati) e di essere stati accreditat­i di almeno il 5 per cento di consensi in quattro proiezioni nazionali approvate dal DNC ( Democratic National Commitee) o il 7 per cento nei primi quattro Stati delle primarie.

Soldi, dibattiti e polemiche finiscono poi nelle urne, Stato per Stato, territorio per territorio, come accadrà questo prossimo martedì 3 marzo, il Super Tuesday, dove si voterà in 14 Stati. Per la prima volta ci saranno tutti e sei i contendent­i, compreso Bloomberg che ha scelto di non presentars­i fino ad allora. Il4marzoTr­umppotràpr­obabilment­e cominciare a puntare i suoi tweet sul suo vero, prossimo avversario.

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IMBATTIBIL­E COME ROCKY? Donald Trump, 73 anni, con il corpo e i guantoni di RockyBalbo­a in un fotomontag­gio da lui stesso twittato. Tra i Repubblica­ni, Trump non ha rivali.
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 ??  ?? Sarà una battaglia tra super ricconi? Il candidato democratic­o Michael Bloomberg conDonald e Melania Trump, 49, in una foto d’archivio. L’elezione sarà una sfida tra Paperoni?
Sarà una battaglia tra super ricconi? Il candidato democratic­o Michael Bloomberg conDonald e Melania Trump, 49, in una foto d’archivio. L’elezione sarà una sfida tra Paperoni?

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