SPERO SOLTANTO NEL CONTAGIO DELBUONSENSO
D iario minimo mentre si straparla di paura e coraggio, panico e sangue freddo. Ero un adolescente insicuro, prematuramente orfano del padre, quando la guerrami impose una precocematurità. Fui nominato capo fabbricato perché
fra le sei famiglie abitanti al n.72 di viale Rimembranze, a Parma, tutti gli uomini erano al fronte e io ero l’unico maschio disponbile.
Durante i primi bombardamenti, mascheravo a fatica lo spavento per un pericolo ancora ignoto, poi scoprii che
fra paura e coraggio si inserivano sentimenti intermedi come il peso della responsabilità e l’orgoglio.
L’abitudine al rischio temprava la gente. Oggi, quando sento i contadini della Zona Rossa lamentarsi per la quarantena, penso che i loro nonni rischiavano la fucilazione se i nazisti scoprivano sotto le botole della stalla un inglese paracadutato o, dopo il
‘43, un partigiano.
Siamo intossicati di talk show, nelle conferenze stampa tira un’aria inquisitoria di Norimberga, bastano dieci minuti al giorno di internet e siamo tutti esperti di epidemiologia e virologia.
A furor di popolo, abbiamo rottamato i vaccini, adesso pontifichiamo nei sondaggi dividendoci in percentuali pro scuole chiuse, chiese aperte e musei così così.
Ci vorrebbero un po’ dei nonni di una volta.
Quando interpellano me, non esito a rispondere che non so niente e chemi fido dei fantastici medici e scienziati e infermieri.
Tutta la vita si regge sulla fiducia nel prossimo, compreso il tecnico dell’ascensore, quelli della torre di controllo e il biologo che non scambia le fialette del mio sangue.
Se insistono, dico che stiamo facendo la prova generale della morte del pianeta. La natura, umiliata e offesa, si vendica con clima, cavallette e virus, mentre la nostra solidarietà umana non va oltre un obolo a Telethon. C’è chi spera che l’epidemia ci riporti ai valori della vita. Ma temo che il contagiomeno probabile sia quello del buonsenso.