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« Per salvarmi sono tornato bambino »

RAPITO CON LA FIDANZATA CANADESE, DOPO 15 MESI È TORNATO A CASA. ECCO COME È RIUSCITO A SOPRAVVIVE­RE, GUARDANDO IL MONDO CO NOCCHI NUOVI

- Luca Tacchetto

Se sali inmacchina e vai inAfrica non devi contare un viaggio. Ne devi contare tre. Non ne faccio questione di chilometri. È questione di mondi. Fai Nord Italia, Francia e Spagna. Ed è uno. A Gibilterra salti dall’altra parte scendi in Marocco, Sahara Occidental­e e Mauritania. E sono due. Passi il confine del Mali, guardi la gente, gli sguardi, il modo di sorridere e di muoversi e a quel punto finalmente senti di essere arrivato lì dove volevi arrivare. In Africa. E fanno tre. Avevamo già fatto 6.500 chilometri, stavamo lasciando il BurkinaFas­o per scendere inBenin. Altri 7/800 e saremmo arrivati dai nostri amici nel Togo. E invece eravamo in mezzo alla foresta, seduti su un telo, circondati da uomini armati che sbraitavan­o come matti. Non capivo niente. Guardavo Edith. Mi chiedevo chi di noi due per primo si sarebbe preso una pallottola in testa. I nostri sguardi si incontrava­no ed era come se in lei vedessi ancheme stesso. Come fossimo la stessa persona. Non so se fosse amore. Credo fosse qualcosa di più profondo. Sentirsi insieme sulla soglia tra la vita e la morte, ci aveva resi nudi, aveva ridotto la nostra umanità a un unico fattor comune, a unamedesim­a identità, che forse è sul fondo di ognuno di noi ed è quella che ci rende tutti uguali. Ecco, il viaggio dentro noi stessi è stato il «Viaggio». Quello che ci avrebbe accompagna­to in ogni instante per tutti i mesi di prigionia e che continuerà ad accompagna­rci e a renderci inseparabi­li.

I nostri carcerieri per fortuna non sono diventati i nostri carnefici. Parlavano in modo concitato, urlavano e noi non capivamo niente. Nei primi giorni ci avevano spaventato, poi nel loromodo di fare caotico e agitato, abbiamo cominciato a riconoscer­e una logica. Non volevano ucciderci. Ci volevano vivi e dovevano portarci quanto prima là dove eravamo attesi.

È così iniziato un altro viaggio a tappe forzate. A piedi attraverso la savana. In sella a una moto o sul cassone di un pick-up. Sul fondo di una piroga attraverso fiumi e lagune. Ogni tre, quattro giorni passavamo di mano. I primi rapitori ci hanno lasciato a un’altra banda, che ci ha lasciato a un’altra ancora e così via. A volte ci bendavano. Ci davano poco da bere e da mangiare e ci facevano dormire sempre all’aperto. Avevo la schiena distrutta. Edith in compenso era una roccia, la guardavo e cercavo di diventare come lei. Nessuno ci faceva del male. Ci considerav­ano marito e moglie, ci rispettava­no e ci lasciavano stare insieme. La notte se ne stavano a distanza. Se però ci sentivano parlare s’arrabbiava­no e ci facevano smettere. Più s’andava avanti e più perdevo la cognizione del tempo e dello spazio. Finché siamo arrivati nel deserto. Abbiamo cominciato ad avanzare tra le dune, come puntini persi nell’immensità. Poche settimane prima, passando dalla Mauritania al Mali il Sahara lo avevamo sfiorato e ci era sembrato uno sconfinato spazio libero. Ora ci appariva sotto una luce diversa, come una prigione senzamura, senza catene e senza sbarre. Dove sei con i tuoi carcerieri. Vivi con loro e mangi come loro. Farina, riso, latte in polvere, tanto vento e tanta sabbia. Qualche volta passa una carovana. Non la vedi, ma uno della squadra parte e il giorno dopo torna con latte di cammella, una capra o un piccolo cammello. Sgozzano gli animali davanti a te e li cucinano sul fuoco.

La notte si dorme all’aperto. Srotoli una stuoia e ti butti giù. Il vento è fortissimo, fa un freddo cane. Se va bene ti accucci vicino a un cespuglio. Se trovi dei rami costruisci un riparo. È zona di guerra e lemilizie islamiche hanno un unico modo per difendersi. Rendersi invisibili. Col freddo non ci sarebbe niente di più bello che accendere un fuoco. Ma nel buio della notte una fiamma non sfuggirebb­e a chi sorveglia il deserto dall’alto.

CALDO E SOLITUDINE

Dopo pochi mesi hanno preso Edith, l’hanno caricata su un pick-up e l’hanno portata via. Speravo tornasse. E invece non tornava. Stavo male. Poi è arrivata la stagione secca e sono stato peggio. Un caldo indescrivi­bile. Il sole si manifestav­a con una potenza assoluta, quasi divina, che da un lato mi schiacciav­a, dall’altro mi affascinav­a. Non riuscivo a dormire. Avevo perso i sandali e stavo a piedi nudi sulla sabbia infuocata. Edith non c’era. Non sapevo dove fosse. Ero solo. E la solitudine è una brutta bestia. Ti parlano e non ascolti. Bevi e mangi qualsiasi cosa ti venga data. Ti allontani di qualche metro per fare i tuoi bisogni. Quando fa buio ti butti giù e cerchi di dormire. Rannicchia­to sulla sabbia aspetti un nuovo giorno. Le squadre continuava­no a ruotare. E continuava­no a spostarmi. Si scavallava nella duna vicina. Oppure si cambiava zona. Si marciava per decine di chilometri a piedi, qualche volta si partiva in auto, o a dorso di cammello. Mi sentivo stordito, frastornat­o. Ma poi è successo qualcosa. AVenezia si dice che quando l’acqua ti tocca il culo impari a nuotare. Acqua o sabbia non fa differenza. Dovevo stare a galla. Come un bambino ho cominciato a giocare. Prendevo un ramo e facevo il mio mestiere di architetto. Disegnavo sulla sabbia progetti incredibil­i, il vento li spazzava via e io li rifacevo ancor più belli. Volevo sapere l’ora e mi sono costruito una meridiana. Ho iniziato a osservare gli animali, a vedere come si comportava­no, come si difendevan­o dal caldo.

Guardavo i corvi, sospesi nella calura, ruotare per ore su di noi senza battere un colpo d’ala. Chinato a terra assistevo a procession­i di formiche rosse giganti. Vedevo gli aspidi volare sulla sabbia e scorpioni grossi come scampi, immobili con le pinze spalancate, la coda sollevata e il pungiglion­e pronto a colpire. Mi divertiva la prudenza con cui s’avventurav­ano fuori dalle tane i topi dai grandi occhi o certi conigliett­i magri, magri.

Ed è stato terrifican­te, una notte, durante un trasferime­nto, scoprire d’avere tra i piedi una vipera cornuta. Ho urlato, qualcuno è corso e l’ha uccisa a bastonate. Dopo il tramonto mi sdraiavo e mi perdevo in cielo. Riconoscev­ole Pleiadi, l’Orsa maggiore e minore, Orione, i Gemelli e per la prima volta ho visto la Croce del Sud.

UN ANGELO SENZA ALI

Col tempo ho anche provato a comunicare con i miei sequestrat­ori. Ma per quanto ci potessimo sforzare eravamo troppo diversi. Loro non capivano me, e io loro. Abbiamo provato a intenderci su qualcosa di più semplice. Mi hanno offerto il loro tè e non è andata meglio. Era fortissimo e pieno di zucchero. Senza dentifrici­o e spazzolino rischiavo di rovinarmi i denti e ho preferito rinunciare. Sono passati i mesi, il caldo ha cominciato a diminuire e ho sentito il desiderio di fuggire. Ci ho provato, ed è andata male.

Col freddo è tornata Edith. Eravamo conciatima­le. Ma vivi e felici di essere di nuovo insieme. Ci siamo ripresi e abbiamo cominciato a ragionare.

Dovevamo fuggire prima che ricomincia­sse il caldo. Aspettavam­o il momento giusto. E in una notte senza luna ci siamo detti: «O la va o la spacca». Sapevamo che in mezzo al deserto avremmo potuto essere uccisi dal morso di una vipera o dalla puntura di uno scorpione, che avremmo potuto cadere e farci male, oppure perderci e morire di sete. E invece è andata bene. È una storia che ho racontato nel numero scorso. Se ripenso a chi dopo ore interminab­ili di marcia ci ha raccolto in mezzo al nulla e ci ha portati al comando militare delle Nazioni Unite di Kidal, mi dico che gli angeli esistono. E non hanno le ali. Quindici mesi sono tanti. A farci partire era stato il desiderio di conoscere un mondo diverso e la volontà di aiutare altre persone nella realizzazi­one di un progetto umanitario.tario. È andandata in modo diverso. Ho vissuto o un’esperienza inimmagina abile, ho conosciuto e mi so ono confrontat­o con persone s diverse, ho sofferto, ma ho anche imparato ad apprezzare il valore della vita v e della libertà.

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PORTATI A NORD Sopra, l’odissea di Luca ed Edith, presi in ostaggio al confine col Benin e portati nel Sahara.

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