Oggi

Io, bloccata in Africa e trattata da untore

QUEL LAVORO CONI BAMBINI IN GHANA ERA IL SOGNO DI FRANCESCA BERTONCELL­I. MA, CON LA PANDEMIA, È DIVENTATOU­N INCUBO. LA GENTE DEL POSTOLA INSULTAVA. E LA FARNESINA NON LE RISPONDEVA ...

- Di Serenella Bettin

H «o avuto davvero paura perché sapevo che se fossi stata costretta ad andare in un ospedale locale probabilme­nte ci sarei rimasta. Ci chiamavano “coronaviru­s, coronaviru­s, coronaviru­s”, ci dicevano “andatevene a casa vostra”: laggiù il virus è la malattia dei bianchi. Così il mio sogno è diventato un incubo». Quel sogno Francesca Bertoncell­i, 25 anni, lo coltiva da quando ne aveva 13. Sull’onda dei ricordi della zia Carla, la sorella del nonno che aveva fondato una scuola a Nairobi. Partire, affrontare l’Africa e aiutare i bambini. Ma la sua esperienza è diventata un’odissea.

Il 12 febbraio, quando l’Italia, sebbene avesse già decretato lo stato d’emergenza, viveva nella “normalità”, convinta che il virus qui non si sarebbe mai diffuso, Francesca vola in Ghana e il giorno dopo arriva a Bolgatanga, un piccolo villaggio nell’estremo nord del Paese. Una delle zone più critiche. È qui che lei, laureata in Mediazione linguistic­a, che parla inglese, francese, tedesco, chemastica il russo e con un passato lavorativo in Francia, ha deciso di andare. Si sistema in una casa con la famiglia del fondatore della Ong che la segue. Assieme a lei ci sono Marta, una dottoressa spagnola, e Taro, un docente inglese. Al mattino insegna francese in una scuola primaria, il pomeriggio lo trascorre in un or

fanotrofio e con bambini in difficoltà. Insegna loro l’inglese, ogni giorno si sveglia felice e orgogliosa.

Ma arriva il 21 febbraio e l’emergenza coronaviru­s scoppia anche in Italia. Il 15 marzo il Ghana chiude tutte le scuole e Francesca sospende le lezioni. Lì, racconta a Oggi, «la situazione è complicata. Molti non possono lavarsi le mani, a casa non hanno l’acqua corrente e le persone non possono rimanere in casa perché sopravvivo­no vendendo prodotti per le strade». I volontari occidental­i, che erano visti come dei santi, diventano all’improvviso degli untori .« Ho iniziato ad avvertire un atteggiame­nto ostile da parte di molti locali. Non ci salutavano più con il sorriso, ci chiamavano “coronaviru­s” e ci gridavano di tornare a casa. Con gli altri due volontari, abbiamo deciso di non uscire più, ci portavano da mangiare quelli della Ong».

Francesca decide di rientrare in Italia e prenotaunv­oloper il 26marzo. Ma il volo viene cancellato dalla compagnia aerea. «Tornare sembrava impossibil­e. Nessun volo per il successivo mese e mezzo. Il villaggio si trovava a 800 km dall’aeroporto e i mezzi per arrivarci erano bloccati a causa del lockdown». Francesca scrive all’Unità di crisi della Farnesina, invia una mail all’ambasciata italiana, ma senza risultato. I genitori guardano il telefonino ogni minuto del giorno, lamadrenon­dorme più di notte. «Provavo a chiamare la Farnesina 60 volte al giorno», racconta la madre. «Mia figlia era sola lì. E io avevo gli incubi di notte, la sognavo che mi chiamava e mi diceva: “Mamma sto male, mamma sto male”». Allora contatta un amico di infanzia, l’ex senatore Federico Bricolo, che la mette in contatto conaltri due senatori, Cristiano Zuliani e Toni Iwobi. «Il 19 aprileil», racconta FFrancesca, «ricevo i una mail dall’ambasciata italiana ad Accra che mi informa di un volo per Bruxelles in partenza dalla capitale». Già, come arrivarci? Francesca passa la notte insonne per cercare un modo per raggiunger­e Accra. Fino a che, con gli altri due volontari, organizza un viaggio in taxi di 14 ore. È il 23 aprile, Francesca arriva a Bruxelles, si ferma tre giorni per trovare il primo volo utile per l’Italia. Da qui parte per Roma, passa 17 ore all’aeroporto, e poi prende un volo per Milano. Il padre chiede di poter andare a prendere la figlia ma «gli dicono», racconta Francesca, «che essendo io maggiorenn­e potevo arrangiarm­i». Allora il senatore Zuliani si attiva e la aspetta lui all’aeroporto. Francesca arriva a casa. Abbraccia i genitori, con la mascherina. «Tanto non siamo abbraccion­i, siamo veneti in fondo».

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