Italia- Germania 4-3
Mazzola e Rivera parlano della partita infinita
Stadio Azteca di Città del Messico. 17 giugno 1970. Una targa ha immortalato per sempre l’evento. Perché ci sono partite che non finiscono. Fanno dei giri immensi. Si giocano fino ai supplementari. Ed entrano in quel nobile spicchio della memoria che si chiama leggenda. Italia-Germania 4-3 non fu un incontro di calcio. Ma un’epopea. Uno spartiacque generazionale. Una linea d’ombra, che molti ragazzi varcarono in una magica notte di 50 anni fa. Quando rimasero svegli davanti alla tv. Con i loro papà. Per assistere in diretta almatch più emozionante che la storia umana ci abbia tramandato.
«E pensare che i primi 90 minuti furono piuttosto noiosi», ricorda con un tocco di consapevole ironia l’interista Sandro Mazzola, 77 anni, protagonista, assieme al milanista Gianni Rivera, 76, della staffetta che caratterizzò il Mondiale messicano della Nazionale. L’attaccante nerazzurro e il regista rossonero si divisero equamente gli spazi e giocarono un tempo per uno, nell’arco dellamanifestazione. Inclusa la semifinale contro gli “alemanni”. Dove Rivera, come da prassi, subentrò a Mazzola dopo l’intervallo. E sigillò l’incontro al 6° minuto del secondo tempo supplementare, con un piattone finto-facile che spiazzò scientificamente il portiere tedesco. La partita del secolo? «Dei due secoli», si fa serio Sandro. «Perché siamo ancora qui a parlarne, nel 2020. Io penso che neppure le finali delle due Coppe del Mondo vinte nel 1982 e nel 2006 abbiano raggiunto questa intensità. L’unico incontro paragonabile quanto a pathos è forse Italia-Brasile 3-2, al Sarrià di Barcellona. Ma resta pur sempre una tacca sotto la nostra semifinale». Mazzola ha perfettamente ragione. Del resto, al cuor non si comanda, e neppure l’immaginario collettivo accetta deroghe. Non è un caso se teatro, cinema e letteratura abbiano omaggiato
il grande evento nel corso del tempo. E adesso, in occasione del cinquantenario, ci sono due libri a celebrare cotanto match. Il primo, a firma del giornalistaMaurizioCrosetti, si intitola icasticamente 4- 3. L’altro, La partita del secolo, una ristampa, è opera del sociologo e politico Nando Dalla Chiesa (vedi box in basso).
«Eppure io baratterei al volo quel gol in cambio della finale che non ho praticamente giocato», interviene Rivera con un tackle piuttosto ardito e decisamente ignoto al suo squisito repertorio tecnico. Ancora polemiche a 50 anni di distanza? La questione non è del tutto oziosa. Né capziosa. Nessuno ha mai saputo spiegare perché il regista milanista sia entrato in campo soltanto a sei minuti dal termine, a risultato compromesso, nella finale persa 4-1 contro il Brasile di Pelè.
«Io polemichenonne feci allora, quando, in ossequio alle disposizioni del ct Valcareggi, entrai disciplinatamente in campo per quella manciata di secondi. E non intendo certo riaprirle adesso. Peraltro con l’allenatore rimasi in buoni rapporti. So che non ne aveva colpa. Lamia panchina fuunadecisione politica. Dettata da una lobby che gravitava attorno all’allora direttore della Gazzetta dello Sport, Gualtiero Zanetti. Vede, Sandro e io avevamo accettato la staffetta, che caratterizzò tutto il Mondiale del 1970». «Non è che fossimo d’accordo», interviene Mazzola. «In qualunque altra Nazionale avremmo giocato tranquillamente insieme. Cosa che peraltro accadde prima e dopo il Messico. Diciamo che il fatto di giocare in altura, con la difficoltà dei tempi di recupero, dava un senso alla nostra alternanza». «Proprio per questo», chiosa Gianni e arrota la erre, «mi risulta tuttora misterioso il motivo della mia esclusione, dopo una semifinale che ci aveva costretto a combattere per 120 minuti, contro
una squadra fortissima, come quella tedesca. Avrei potuto dare il cambio a un compagno più stanco».
Si ritorna sempre lì, c’è poco da fare. Alla partita dei due secoli. Sandro sostiene che i tempi regolamentari furono noiosi. Lei è d’accordo, Rivera? «Fuun incontro sofferto. Il mio compagno di club, Schnellinger, pareggiò all’ultimo istante, per puro caso. Stava tornando negli spogliatoi e si trovò vicino alla nostra porta. Eravamo andati in vantaggiopresto e difendemmo il risultato, all’italiana». È una stoccata a Gianni Brera, giornalista e scrittore, assertore di un calcio patriottico-catenacciaro? «No! È vero che lui mi punzecchiò spesso. Ma ci riconciliammo. Fuori dal campo, condividevamo la stessa passione per l’enogastronomia». Signor Mazzola, Gianni sostiene che quella finale è il suo cruccio. Lei invece che rimpianti ha? «Nessuno! L’unico dispiacere della mia carriera l’ho provato quando ho dovuto smettere. Ho giocato un buon Mondiale, fisicamente stavomolto bene. Contro la Germania fu una partita di sacrificio, ma io piacevo al selezionatore anche per le mie capacità agonistiche». Sta mandando un messaggio subliminale a Rivera, meno dotato su questo piano emarchiato daBrera come “abatino”? «Cosa va a pensare! La rivalità con Gianni è stata un’invenzione della stampa a uso e consumo delle tirature. In realtà tra di noi c’è sempre stata stima reciproca. Le ricordo che assieme abbiamo fondato il sindacato calciatori. Sebbene dovessimo andare quasi di nascosto alle riunioni. Perché se i nostri tifosi ci vedevano insieme, partivano insulti per entrambi». Se lamette così, azzardounadomanda: mi illustra una qualità che invidiava a Rivera? «Il suo passaggio smarcante. Lui aveva la capacità di mandare il compagno davanti al portiere avversario. Io in compenso ci arrivavo da solo con i miei dribbling». Ti pareva. Meno male che siamo stati noi giornalisti a inventarci tutto. Mi toglie un’altra ancestrale curiosità che mi accompagna silente da quando vidi per la prima volta la semifinale? Fu sincera la sua gioia, dopo il gol di Gianni? «Certo che sì, esultai come un pazzo, assieme agli altri. Però devo riconoscere che dalla panchina nonavevo capito avesse segnato proprio lui».
Gianni, lei avrebbe voluto la velocità diMazzola? «Stavo benissimo com’ero. Non ho mai guardato gli altri. Avevo una mia idea di calcio offensivo. E mi piacerebbemetterla inpratica». Inche senso? «Ho preso da poco il tesserino e posso allenare. Se il Milan ha bisogno di unamano, io sono qua».