LA LEZIONE DI MIA FIGLIA CLEMENTINA
Anni fa, Bill Niada ha perso la sua bambina per un cancro. Dopo, la sua vita è cambiata: da uomo d’affari milionario è diventato un imprenditore sociale. La sua fondazione fa lavorare ragazzi con gravi patologie. «Perché la malattia non dev’essere tutto. E la vita è bella se la fai bella tu»
La prima volta che Bill Niada e sua moglie Emilia hanno capito che qualcosa non andava è stato quando a loro figlia Clementina, che aveva sei mesi, si è chiuso un occhio. Sarà una congiuntivite, dicevano i pediatri. Passerà. Era il primo sintomo di un neuroblastoma, uno dei tumori più rari e bastardi che esistano. Clementina se n’è andata che non aveva ancora compiuto 11 anni. Dopo, nulla poteva più essere lo stesso. E non lo è stato.
Nella sua vita di prima, Niada, nato in una famiglia di industriali milanesi, era un businessman di successo. Aveva cominciato giovanissimo: a 20 anni allevava lombrichi per farne fertilizzanti, si è occupato di import farmaceutico. Finché, per caso, non si è messo a vendere t-shirt. Si era inventato una filatura in cotone mélange che faceva impazzire gli americani, Banana Republic gli ordinava milioni di pezzi. A 26 anni, fatturava 7 miliardi di lire all’anno. «Ero ambizioso, uno che correva sempre. Non s’immagini il Gordon Gekko di Wall Street: lavoravo sodo perché mi piaceva, i soldi per i soldi non mi hanno mai entusiasmato». Per dire: quando Niada apre i primi outlet d’Italia, che fanno il botto, decide di darsi uno stipendio (5 milioni di lire, roba da manager di medio livello) e di distribuire gli utili pro quota tra i suoi dipendenti. Ma è, e resta, un imprenditore classico. Uno di quelli per cui al centro di tutto c’è l’azienda.
Nasce Clementina, poi le sorelle Margherita e Maria Francesca. Dopo quella storia dell’occhio chiuso, rientrata, la malattia di Cleme resta nascosta per un po’. Un giorno - la bimba ha quattro anni - la palpebra si abbassa di nuovo, tac, e le viene un ponfo sul collo. Esami, controesami, consulti. Finché i medici raggiungono una diagnosi che raggela.
Di quel periodo, in cui Bill e la moglie hanno portato la figlia ovunque pur di farla curare - un anno a Londra, tre a New York, una montagna di soldi spesi - Niada parla con parole asciutte, come si fa di un dolore che ha trovato un suo posto, ma è meglio non scuotere troppo. «È stato difficile, molto».
In ospedale, Clementina alternava il dolore a periodi in cui stava meglio. Durante quelle pause, ricorda suo padre, era una bambina allegra, che scherzava con tutti
Cleme era buffa, sorrideva sempre. Grazie a lei ho imparato che ogni attimo ha un valore
— Bill Niada
I soldi servono se sono un mezzo per altro. Altrimenti è solo fatica, ostentazione
e s’inventava giochi assurdi. «Quando hai un figlio malato basta poco: se si sveglia la mattina e sorride già ti svolta la giornata».
È stato allora che Niada ha capito che chi soffre può e deve vivere altro, oltre la malattia. È stato allora che è cambiato tutto.
Dopo che Clementina se n’è andata, Niada e la moglie, da cui oggi è separato, hanno fondato MagicaCleme, una fondazione che ritaglia angoli di felicità per i bambini malati di tumore: li portano a soffiare il vetro a Murano, a guidare il camion dei pompieri. Bellissimo, ma a Bill non bastava. «A un certo punto ho capito che lavorare come prima non mi interessava più. Che volevo investire soldi e competenze in qualcosa che lasciasse un segno». Così, ha creato il Bullone, una fondazione che riunisce giovani che soffrono di patologie gravi o croniche cancro, Hiv, disturbi alimentari o malattie rare - e li fa lavorare assieme. L’obiettivo è quello di spostare l’attenzione dal chiodo fisso della malattia: «Se ti fa male un dito e ti metti a giocare a calcio pensi al dribbling, non al pollice».
I soldi entrano grazie alle attività dei ragazzi, è così che la Fondazione si mantiene, ma anziché profitti per i soci generano stipendi, idee e prospettive di vita. Si chiama imprenditoria sociale. «Per me, il denaro serve se è un mezzo per fare altro. Altrimenti è solo fatica, paura, ostentazione».
I “bullonisti”, anche detti B.livers, 250 ragazzi dai 18 ai 30 anni, pubblicano un signor mensile (Il Bullone, interviste a Isabel Allende, Marina Abramovic, Luca Guadagnino), fanno comunicazione sociale per grandi aziende, tengono riunioni di redazione nelle carceri. «Sono nel mondo, non nella malattia». Quest’anno, per la prima volta, la Fondazione organizza anche InVisibile, un festival aperto a tutti in cui i ragazzi dialogheranno con gli adulti: dal 20 al 22 ottobre, agli IBM studios, nel centro di Milano, si parlerà di lavoro, di inclusione, di rapporto con il proprio corpo con ospiti importanti, dall’attrice Cristiana Capotondi all’atleta paralimpico Daniele Cassioli (invisibilefestival.ilbullone.org).
Bill ne è convinto: l’importante per i giovani, tutti, è darsi da fare, essere orgogliosi di sé. Siamo noi adulti a dare loro un senso distorto della vita, noi a non spiegare che al centro non ci sei solo tu, che là fuori esistono persone, sentimenti e alberi da curare. Vale anche se sei malato, anzi, di più. E Niada non ha timori a usare la parola “disciplina”. «Odio il pietismo e l’assistenzialismo, sono il contrario di ciò che serve a far stare bene. Noi lo mettiamo subito in chiaro: proibito lamentarsi, la vita è bella se la fai bella tu». Lavorando insieme, i ragazzi sbocciano come peonie. Molti di loro hanno conquistato il tesserino da giornalista, Chiara è diventata art director. Oggi, Niada ha trovato la sua strada. È buddhista («più o meno»), dorme 5 ore a notte, fa sport, evita i social come la peste e comunica solo via sms, con un vecchio cellulare senza internet. «Ci riempiamo la vita di cagate, ma le cose che contano sono poche». Nel suo piccolo appartamento da single al 12° piano di un grattacielo milanese ci sono pile di libri, una vecchia foto in cui aveva ancora i capelli, una finestra che guarda il cielo. Sul tavolo, un bigliettino scritto a mano da Clementina anni fa, con una lista di desideri. Vorrei un gatto. Vorrei entrare nel sole. Vorrei fare pesca d’altura. Vorrei che tutti, nel mondo, fossero felici.
— Bill Niada