Finirà la guerra tra Israele e Hamas?
A due mesi dall’attacco nei kibbutz e dalla successiva rappresaglia nella Striscia, il tentativo di dialogo sembra fallito e non tutti gli ostaggi sono stati liberati
L ’attuale guerra di Gaza è diversa da tutte le altre. Perché le sei precedenti non sono mai state così violente e così lunghe. Perché Hamas non era mai riuscita a seviziare tanti israeliani e a colpirne il senso di sicurezza. Perché Israele non aveva mai avuto una simile mano libera per consumare un massacro di massa. Perché mai erano state così determinanti alcune variabili indipendenti: gli ostaggi, che in due mesi non s’è riusciti neppure a localizzare; la debolezza del premier israeliano, ostaggio dei coloni e sfiduciato dall’opinione pubblica; la debolezza dell’appoggio americano, peggiorata dalla scadenza elettorale di Biden, dalla sua antipatia personale verso Bibi Netanyahu, dalla preoccupazione per l’altra guerra in Ucraina; l’assenza di qualunque dialogo fra le due parti, e l’inesistenza d’una credibile guida politica palestinese. Questa guerra è diversa da tutte le altre e, dunque, una vera pace non potrà certo firmarla Bibi, alla fine d’una corsa politica incentrata solo sulla sicurezza. Né i gazawi potranno più essere rappresentati da terroristi finanziati dall’Iran. Per Hamas, la scomparsa d’Israele dalle mappe è ancora una condizione irrinunciabile. Per Israele, l’annientamento di Hamas è necessario dopo il massacro nei kibbutz. Ora, serve altro: che dalle due trincee s’alzino nuovi leader, nuove visioni. E che dal ring escano i secondi: chi usa Israele per soffiare sullo scontro di civiltà, chi strumentalizza i palestinesi per attaccare l’Occidente. Servono i ponti dei costruttori di pace. Basta coi tunnel dei distruttori di vite.