CHI SOFFRE NON PUÒ ESSERE IN OMBRA
L’impegno contro la guerra a nome del Papa, l’importanza della vicinanza ai poveri scoperta al liceo, la presidenza della Conferenza episcopale italiana, la politica: il cardinale Matteo Maria Zuppi parla della Chiesa. E anche un po’ di sé
A Natale farò le celebrazioni nelle due cattedrali di Bologna, quella di San Pietro e quella della Stazione, anche essa cattedrale con il suo popolo
Arcivescovado di Bologna, un sabato di dicembre. Quattro rampe di scale e si arriva nell’ufficio del cardinale Matteo Maria Zuppi: librerie alle pareti, tavoli pieni di carte, foto, un presepe napoletano con Gesù Bambino. Si comincia dai pellegrinaggi del cuore. E si scopre che nel suo santuario intellettual-spirituale ci sono Sant’Alfonso, Sant’Agostino, don Tonino Bello, padre Pino Puglisi, dottori della Chiesa e pastori-educatori. «Sant’Alfonso ci aiuta a rendere effettiva la morale, perché capita che non attragga o allontani», spiega Zuppi, che è nato a Roma l’11 ottobre 1955 - papà giornalista, mamma nipote del cardinale Carlo Confalonieri - e si è formato nella comunità di Sant’Egidio. «Sant’Agostino ci accompagna nella ricerca della bellezza di Dio. Anche con le parole poetiche delle sue Confessioni: “Tardi ti ho amato”. E poi c’è San Nicola, il santo della pace».
Arcivescovo di Bologna dal 2015, cardinale dal 2019, presidente della Cei, la Conferenza episcopale italiana, dal 2022, “ambasciatore di pace” per conto del Papa. Tra tutti questi impegni come sta?
«Sono impegni, a volte grandi sfide, che affronto con il sostegno di molti. E siccome amo e cerco di amare la Chiesa, questo aiuta anche a fare qualche acrobazia».
Da presidente della Cei è complicato tenere insieme le diverse anime della Chiesa?
«Qualcuno dice che sono camaleontico. Nella comunità di Sant’Egidio ho capito l’importanza di andare d’accordo e quanto è preziosa la comunione. Bisogna cercare sempre ciò che unisce e non ciò che divide. In generale, siamo vittime della polarizzazione, dello scontro più che dell’incontro. L’individualismo e l’esibizione di sé dominano sulla relazione con l’altro. Questo accade nella società e anche dentro la Chiesa, ma per fortuna al centro c’è Gesù che ci chiede il fare il contrario».
Tra le 226 diocesi e i 412 vescovi quali sono le maggiori difficoltà?
«I vescovi che guidano le diocesi sono 208, gli altri sono emeriti. Si tratta di realtà anche molto diverse. Comunque, c’è più comunione che contrapposizione».
La preoccupano i dati che danno la frequenza della messa in calo? Si parla del 19 per cento, mentre i praticanti erano il 36% nel 2001 e il 30% nel 2005.
«Mi preoccupano. Dobbiamo capirne l’origine e individuare che cosa fare. Preoccupa l’individualismo, che è il grande nemico del nostro tempo.
Vado sempre in bicicletta, ma il don Matteo della fiction è più bravo di me — Matteo Maria Zuppi
Preoccupa quello che Papa Benedetto definiva il relativismo. In questo contesto, la visione pastorale di Papa Francesco, a volte anche non capita, propone il rimedio al relativismo: “stai accanto agli altri, ascolta, trova te stesso trovando il prossimo, non condannare, non fare proselitismo”».
Pur con questa apertura, la lontananza dalla Chiesa sembra crescere.
«Forse c’è stata troppa distanza in passato. E ora paghiamo le conseguenze di una Chiesa percepita poco come madre. Di una Chiesa che parla un linguaggio che non comunica. Che esprime regole e non è annuncio, che è poco comunità, che pensa alla verità come a un astratto, che non si mischia con la vita. Dobbiamo cercare di vivere e annunciare il Vangelo e di essere comunità aperte, sensibili, attente ai poveri, e così a tutti».
Quindi quali sono oggi le maggiori sfide della Chiesa italiana?
«Quella di essere comunità, di unire eucarestia e servizio, fede e amore, verità e misericordia, giudizio e perdono, di essere madre, di mostrare una presenza».
Siamo in tempo di Avvento: quando si sente parlare di feste di fine anno e non di Natale, della rinuncia alla rappresentazione del presepe in luoghi come le scuole, che cosa prova?
«Si pensa che per fare accoglienza dobbiamo nascondere Gesù, che è presenza unitiva. Chi non è cristiano non deve sentirsi escluso. E noi cristiani dobbiamo saper accogliere, restando tali. Ma non è togliendo il Bambinello che siamo accoglienti».
Che cosa dobbiamo aspettarci dal Sinodo sulla sinodalità che, iniziato nel 2021, si concluderà nell’ottobre 2024? A chi immagina decisioni sul celibato dei preti, sul sacerdozio alle donne, sulle unioni omosessuali, che cosa si può dire?
«Il Sinodo è una grande occasione di ascolto interna alla Chiesa e anche del mondo. La Chiesa, nella sua universalità, esprime situazioni diverse. C’è una Chiesa occidentale invecchiata e ci sono le Chiese giovani, in America Latina, in Africa, in Asia. Dobbiamo trovare una lettura unitaria perché la Chiesa sia sé stessa, tutta missionaria».
Dal 2010 al 2020, in Italia il numero dei preti è calato del 14 per cento: in futuro ci saranno preti sposati? Già nel Sinodo sull’Amazzonia, nel 2019, si era parlato dei viri probati, l’ordinazione di uomini sposati di una certa età e di provata fede. «Nella Chiesa cattolica di rito orientale ci sono già i preti sposati. Quella dei viri probati potrà essere una delle risposte».
Dove sta guidando la Chiesa Papa Francesco?
«Incontro agli altri. Per far sì che la Chiesa non si chiuda in sé, non guardi il mondo da lontano, ma perché sia sé stessa senza paura, perché Gesù cammina sulle strade di tutti e va incontro a tutti».
In questo contesto si inseriscono anche le aperture del Papa sul battesimo alle persone transgender, ai gay che possono fare da padrini e testimoni.
«Ho trovato in questo ambito una grande continuità con il passato, anche con documenti precedenti del Magistero. Si dà una maggiore responsabilità nell’applicazione delle regole, si affida ai pastori l’esercizio del discernimento, come nell’Amoris Laetitia (esortazione apostolica del 2016 del Pontefice dopo i sinodi sulla famiglia del 2014 e 2015, ndr). È un impegno a capire ogni situazione applicando le regole di sempre, se vogliamo che queste siano per le persone. E questo non è relativizzare o impoverire».
Come sta Papa Francesco?
«Papa Francesco è trasparente sulle questioni di salute: ne parla personalmente».
Il Papa le ha affidato il ruolo di ambasciatore di pace nella guerra tra Russia e Ucraina, lei che nel 1992 ha mediato nei conflitti in Mozambico con la Comunità di Sant’Egidio. La sua prima reazione quale è stata?
«La prima reazione è stata di timore per una missione così importante. Che poi è stata caricata di un’eccessiva attesa e rappresentata come la mediazione del Papa e non come un impegno umanitario per portare sollievo, per creare opportunità per tessere la pace, per non rassegnarsi di fronte alla tragedia della guerra».
Ha generato un desiderio di pace. Lei è stato in Ucraina, in Russia, in America, in Cina: che cosa si è realizzato finora?
«C’è stata piena collaborazione con la segreteria di Stato, con i nunzi di Kiev e di Mosca. Gli impegni per i ricongiungimenti familiari dei bambini li stanno portando avanti con competenza e determinazione».
Il conflitto in Medio Oriente ha messo in ombra quello tra Russia e Ucraina.
«Chi soffre non può essere in ombra. Sicuramente faremo tutto quello che è possibile per alleviare la situazione sia da un punto di vista umanitario sia nel favorire qualsiasi contatto che aiuti la ricerca di una soluzione di pace».
La vede lontana, ha speranza?