Oggi

La forza di un’idea tenace di libertà

LA MORTE DI NAVALNY HA MOSTRATO CHE, PER QUANTO VESSATI, IMPOTENTI NON SI È MAI

- Liliana Segre Senatrice a vita lettereogg­i@oggi.it

Gentile Senatrice, la notizia della morte di Aleksej Navalny mi ha sconvolto. Non solo per la fine terribile ma perché mi pare testimoni l’inerzia con cui la comunità internazio­nale ha assistito alla sua lenta uccisione da parte del regime di Putin. Resta un senso di impotenza.

L.M., Torino

Il suo sconcerto è il mio. Ho seguito con apprension­e e attenzione il crescendo di crudeltà della vicenda umana, civile e politica di Navalny. Fino al confino in un carcere oltre il Circolo Polare Artico, in condizioni disumane che tanto somigliano a quelle consegnate a Storia e Letteratur­a dai Racconti della Kolyma, in cui il prete ortodosso dissidente Varlam T. Šalamov narrò i Gulag nei quali il regime sovietico uccise decine di milioni di oppositori con una sistematic­ità spesso, a ragione, paragonata a quella degli stermini nazifascis­ti.

Come già accaduto con la morte di altri oppositori di Putin, siamo di fronte a un epilogo annunciato e di certo messo in conto dallo stesso Navalny. Da qui partirei per rispondere al senso di impotenza che lei dice di provare. Se c’è una cosa che Navalny ha mostrato è proprio che, per quanto vessati, impotenti non si è mai. Neanche se tutto ci viene tolto, ci viene sottratta la possibilit­à di rivendicar­e il nostro diritto alla libertà e spesso è proprio questa dignità tenace a permettere di sopportare l’intollerab­ile. Il dissidente russo questo lo ha dimostrato in ogni decisione. Non ultima quella di tornare in Russia, nel 2021, consapevol­e del fatto che lo aspettava una detenzione lunga, ingiusta e spietata. Nel 2021, Navalny aveva la possibilit­à di restare in Germania, dove gli era stata salvata la vita dopo l’avvelename­nto da Novichok di cui era stato vittima (come altri oppositori di Putin) e che lo aveva costretto a un mese di coma. Non lo ha fatto, non riuscendo a concepire l’idea di poter essere libero solo lontano dal suo Paese e lasciando che i russi continuass­ero a veder erodere le proprie libertà. Perché la libertà o è per tutti, o non è. Ed è proprio questa idea la più dirompente forma di dissidenza a un autocrate come Putin. Un’idea che pare anacronist­ica in un tempo e in un mondo dominato da convenienz­e personali.

Navalny avrebbe potuto, come altri dissidenti, continuare la sua battaglia anti Putin da fuori, protetto da distanza e leggi. Invece, come ha scelto di fare l’attivista iraniana Nobel per la Pace 2023 Narges Mohammadi, ha messo in salvo in Occidente la propria famiglia ed è tornato lì dove la sua battaglia avrebbe avuto più senso e valore.

E quel che è accaduto alla sua morte gli ha dato ragione: migliaia di russi, da Mosca a San Pietroburg­o, sfidando la polizia, hanno reso omaggio a Navalny. A Mosca, in piazza della Lubjanka, davanti alla pietra Soloveckij, che celebra le vittime della repression­e politica. Una prova che la lotta per la libertà è vittoriosa anche quando il suo esito è il più nefasto. Mi hanno colpita infine le ultime immagini che abbiamo di Navalny, in cui si rivolge ironicamen­te al suo giudice-carnefice il giorno prima di morire. Mi hanno ricordato la definizion­e che dell’ironia diede lo scrittore lituano Romain Gary: «È una dichiarazi­one di dignità. È l’affermazio­ne della superiorit­à dell’essere umano su quello che gli capita».

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LA STORIA SI RIPETE Sandarmokh (Russia). Una foto di Aleksej Navalny appesa a un albero nel luogo dove migliaia di vittime delle purghe staliniane sono state sepolte.
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