Se in Renzi prevale l’anima del pokerista
La paura sul referendum fa 90, e Matteo Renzi e il Pd cominciano a ragionare su un’ipotesi che fino all’altro ieri consideravano irricevibile: cambiare l’Italicum, cioè niente poco di meno che la legge elettorale, più o meno il Sacro Graal del renzismo, lo strumento indispensabile per costruire il Partito della nazione. E invece, con le principali città a rischio nei ballottaggi e con il No al referendum avanti in tutti i sondaggi, Renzi e i suoi cominciano, se non a convertirsi, a riflettere sul rischio di una linea politica improntata alla logica dei «duri e puri». Più che un segno di apertura è la presa d’atto della propria debolezza. Che oggi il premier annunci al mondo di non essere innamorato dell’Italicum, infatti, sembra più un sotterfugio, l’esigenza di trovare una scappatoia, che non la ricerca di un compromesso. Stesso discorso vale per il capogruppo dei senatori Pd, Luigi Zanda, che si difende rilanciando e sfida gli interlocutori a individuare una maggioranza alternativa per approvare una legge elettorale diversa. In realtà l’obiettivo principale di Renzi è ricompattare una maggioranza che si sta sfaldando in vista dei referendum: Pier Luigi Bersani ha già avvertito che se non cambia l’Italicum la minoranza Pd non farà campagna per il Sì; e, altro contrattempo di non poco conto, dentro Ncd, all’indomani dei ballottaggi, si prepara una scissione proprio su queste tematiche capeggiata da Renato Schifani. Così, mentre la situazione si fa sempre più difficile, il premier fa melina e manda segnali contraddittori: anche perché da qui al referendum non c’è il tempo per approvare una nuova legge elettorale. Quindi i ribelli dovrebbero accontentarsi della parola del premier, che dopo quanto accaduto dal 2014 vale poco. Magari dovrebbero accettare un accordo sulla base di uno «state sereni» di Renzi che l’Italicum sarà cambiato, cioè di un impegno per il futuro: chiedere a Enrico Letta oa Silvio Berlusconi il grado di affidabilità di una simile promessa. «Io con lui ho rotto» ripete da mesi il Cav «perché in più di un’occasione è venuto meno alla parola data». Per cui è probabile che tutti questi movimenti approdino a un nulla di fatto. Del resto, se Renzi si fosse mostrato più disponibile l’intesa sarebbe stata raggiunta già durante l’iter parlamentare: dalla sinistra estrema al Cav, passando per la maggioranza, tutti si sarebbero accontentati del premio di coalizione al posto del premio di lista. Ma all’epoca il premier pose un netto rifiuto, sulla base di un calcolo ben preciso: introdurre il premio di coalizione per Renzi equivarrebbe a mettere nel conto una scissione alla sua sinistra e, soprattutto, significherebbe rinunciare al progetto del Partito della nazione. Da allora le cose non sono cambiate. Per accettare uno schema del genere, insomma, Renzi non dovrebbe essere più Renzi. La sua sarebbe una vera abiura del renzismo. Sulla carta, per sopravvivere, il premier con una buona dose di pragmatismo potrebbe anche accettare un simile compromesso. Ma dovrebbe rinunciare al suo personaggio, capovolgere la sua «narrazione». «In fondo» ha confidato il premier a un amico «se perdo il referendum resto sulla scena in un ruolo diverso, e data la mia età potrò avere un’altra occasione. Ma se vinco non ce ne sarà per nessuno: cambio questo Paese come voglio». È fatale: alla fine prevarrà l’animo del pokerista.
I soliti