NC Sebastian Vettel Ferrari
Lewis Hamilton Mercedes Team Mercedes cucito sulle divise della squadra. Ma per fare la differenza serve uno «sgurz», un colpo di genio. Ciò di cui dispone Adrian Newey, prodigioso progettista Red Bull, corteggiato invano dalla Ferrari nell’ultimo decennio; ciò che permise a Rory Byrne e Ross Brawn di realizzare una Ferrari felicissima, all’alba del nuovo secolo, per la lunga galoppata in gloria di Michael Schumacher. Monoposto dotate di un potenziale talmente rilevante da aprire un ciclo. Un classico da Grand prix. Ferrari prima (cinque titoli in cinque anni con Schumi, dal 2000 al 2004); Red Bull poi (quattro Mondiali filati con Vettel, dal 2010 al 2013), Mercedes ora. Solo considerando tempi recenti.
Dunque, un universo dominato dalla tecnica, consegnato alle mani e ai computer in possesso di ingegneri non sempre portatori di uno scarto vincente. Il che rende impotente chi una squadra governa e gestisce. E costituisce una sorta di handicap forse inedito per un uomo come Marchionne, abituato al mondo dell’industria, dove strategie accurate, coraggiose, oculate, possono andare a buon fine grazie a una governance attenta. Qui, se per una manciata di millimetri una macchina perde aderenza, non c’è governance che tenga. Si può intervenire, certo, ma il confine dello sviluppo svela un limite che obbliga a rimandare ogni speranza alla vettura che verrà. La prossima, nello specifico, pensata in funzione di un regolamento tutto nuovo, in vigore dal 2017, con le opportunità offerte da una sorta di azzeramento del panorama attuale.
Marchionne incide comunque, sul piano dell’attribuzione dei ruoli, degli investimenti, della politica sportiva. Ma la sua avventura in Formula 1, coincidente con il debutto in Borsa del Cavallino, lo costringe ora in una posizione scomoda e paradossale: quella di chi deve fare i conti con gli oneri più che con gli onori di una carica tanto prestigiosa. Senza disporre degli strumenti per eliminare qualche decimo di secondo, a ogni giro delle sue Ferrari.