Panorama

Sbugiardia­mo la retorica del dono nell’utero in affitto

Anche Nichi Vendola celebra il mito della donna che «regala la maternità surrogata» alla coppia gay. Ma è solo ipocrisia. Perché in realtà i soldi girano.

- Di Marina Terragni*

Non basta l’accusa di omofobia contro chi si oppone all’utero in affitto, accusa che non risparmia nemmeno le molte lesbiche resistenti. A ostacolare il confronto tra pro e contro è anche l’insopporta­bile retorica del «dono», supportata da studi come quello del Center for family research dell’Università di Cambridge, per il quale (altro che soldi!) le «madri surrogate» si offrono soprattutt­o per la gioia di aiutare gli altri. Una colossale «vocazione al dono» femminile viene celebrata anche da Nichi Vendola, neo-padre via surrogacy intervista­to da Francesco Merlo sulla Repubblica, che dalle tariffe sposta l’attenzione sulla generosità della Donatrice (maiuscolo), detta anche «zia… una bella ragazza di 26 anni». E della «Portatrice con il bel faccione allegro… la nostra Grande Madre».

Sul quanto si sorvola. Ma in California, «all inclusive», si spendono in media 130-150 mila dollari: se poi scegli una «mère porteuse premium», ovvio, ti costa di più. Il talento femminile per il dono è un classico del marketing delle agenzie di surrogacy: «Le donne diventano surrogate per molti motivi, ma le nostre condividon­o lo stesso obiettivo: donare la vita» (agenzia Artparenti­ng, Maryland). «Attraverso la surrogacy le madri insegnano ai propri figli il più puro atto di gentilezza» (agenzia Extraordin­ary conception­s, California).

È una distrazion­e di massa dallo scambio figliodena­ro. Denaro che in ogni caso va immediatam­ente «ripulito», spostando l’attenzione sulla nobiltà dei fini. Perché poi è scontato che quei soldi guadagnati per il servizio riprodutti­vo, in forma di rimborso o di tariffa commercial­e, le temporary mother li investiran­no «per aiutare i figli a pagarsi gli studi» (Umberto Veronesi) o per aggiustare il tetto di casa. Salvo eccezioni pressoché inesistent­i (un atto d’amore tra madre e figlia, tra sorelle, tra amiche: è capitato anche in Italia, su autorizzaz­ione dei tribunali) una «surrogacy» non è mai gratis, ma è assolutame­nte necessario che lo sembri. Come se si volesse eliminare il fantasma prostituti­vo, altrimenti si rovinerebb­e il prodotto.

Il compito affidato alla madre portatrice è quindi duplice: non solo la fatica della gestazione, ma anche l’impegno a testimonia­re un mondo migliore, in cui la solidariet­à umana può spingersii i a livellili lli inimmagina­bili.i i «Un incantesim­o d’amore» lo chiama Nichi. Ebbene, questa infinita oblatività delle donne non è affatto una novità: il patriarcat­o ci ha sempre fatto un gran conto. Lo dice bene la femminista americana Janice G. Raymond: «Nella tradizione patriarcal­e le donne non sono solo donatrici, ma dono esse stesse». Chi insiste sul «dono» si allinea a pieno titolo a questa tradizione. E allora verrebbe voglia di dire a queste donne: amiche, se proprio dovete, fatevi pagare molto di più. Qualche milione di dollari. E quei soldi spendeteli per voi.

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Repubblica
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