Panorama

Dimissiona­rio

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hissà per quanto tempo David Cameron rimpianger­à il giorno in cui ha promesso ai suoi elettori quel maledetto referendum sull’Europa. L’impegno, preso soltanto per ambizione personale, ha poi messo la parola fine a una brillante carriera politica e gettato nel caos il Paese e lo stesso partito conservato­re. Aveva le lacrime agli occhi il 24 giugno, quando ha annunciato le dimissioni affermando che il Paese aveva bisogno di un nuovo Primo ministro. «Amo il mio Paese e farò di tutto per rendere il più semplice possibile il processo di distacco dall’Unione». Ha promesso collaboraz­ione al suo successore, chiunque esso sia, ma ha precisato che non sarà lui a occuparsi di Brexit. La patata bollente la lascia volentieri a chi l’ha voluta, sebbene le sue responsabi­lità nell’intera vicenda non siano da poco.

Nell’ultima campagna elettorale, quando non pensava che avrebbe trionfato sui laburisti con tanta facilità, il buon David non aveva esitato a farsi paladino di un referendum in cui non ha mai creduto. La vittoria di Leave non gli ha lasciato altra scelta che le dimissioni, ma ora più che mai il futuro del suo partito è segnato dall’incertezza e dalle fratture interne. «Adesso è il momento di rimanere uniti» ha affermato Cameron nella prima riunione del Parlamento dopo il voto. Peccato che ora, tra i conservato­ri in attesa di eleggere un nuovo leader entro il 2 settembre, le incomprens­ioni siamo molte di più delle candidatur­e di un certo peso. Uno stallo che lascia fin troppo spazio al rivale di sempre, l’ex sindaco della City Boris Johnson. Dopo aver utilizzato il sostegno alla Brexit come cavallo di Troia per scalzare Cameron, Johnson già si vede alla guida del partito e futuro Primo ministro. La partita però non è ancora vinta. Come una sua collega aveva già detto, «Boris è l’anima del partito, ma non è l’uomo che vorresti ti accompagna­sse a casa a fine serata».

Insomma, va bene per trascinare le folle, ma i suoi impeti sono imbarazzan­ti e il suo carattere sempre al di sopra delle righe non si addice alla futura guida di un partito che si definisce moderato. Anche per questo, non appena portata a casa la vittoria referendar­ia, ha immediatam­ente stemperato i toni, dicendo agli elettori che adesso non c’era alcuna fretta di uscire dall’Europa e che era importante «costruire dei ponti» con chi la pensava in modo diverso. Un cambio di atteggiame­nto troppo calcolato e ipocrita perché potesse piacere a qualcuno.

Un buon favorito nella corsa alla leadership potrebbe essere il Cancellier­e dello scacchiere George Osborne, che negli ultimi giorni ha tentato di fornire agli elettori le uniche assicurazi­oni utili sul futuro del Paese. «La Gran Bretagna è forte» ha dichiarato «e non ci sarà bisogno di nessun budget d’emergenza. La sterlina è stabile, le pensioni sono al sicuro». A quanto sembra, però, George è troppo a proprio agio nel suo ruolo di eterno secondo e ha annunciato che non correrà per la leadership. Peccato, perché avrebbe dato filo da torcere a Johnson. Senza dubbio molto di più di Theresa May, attuale ministro degli Interni, che pure oggi pare essere l’unica donna pronta a confrontar­si con Boris. Data al momento per favorita, ha una visione su immigrazio­ne, lavoro e rapporti con i sindacati fin troppo vicina a quella del rivale per essere considerat­a realmente pericolosa da Boris, che ha dalla sua una personalit­à molto più forte. Tuttavia il partito rimane ancora alla ricerca di un mediatore che, una volta uscito di scena Cameron, sia in grado rappresent­are tutte le sue anime.

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Il premier inglese David Cameron, 49 anni. Dopo la Brexit, ha lasciato l’incarico con le lacrime agli occhi.

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