Lo scaricabarile sugli stipendi Rai
I compensi di amministratori e dirigenti della tv di Stato superano spesso e abbondantemente il tetto che il governo voleva imporre per legge. Per Renzi l’ennesimo boomerang della sua campagna (teoricamente) moralizzatrice. E ancora non si conoscono cifre
ML’ANALISI ario Monti riuscì a fissare per i manager delle società pubbliche un tetto di 311 mila euro annui, pari allo stipendio del primo presidente della Corte di cassazione. Ma il suo decreto riguardava soltanto i dirigenti della pubblica amministrazione, dei ministeri e delle agenzie. Enrico Letta lo estese ai manager delle società controllate dallo Stato. Matteo Renzi, più severo, annunciò che lo stipendio massimo non doveva superare i 240 mila euro previsti per il presidente della Repubblica. I fan più zelanti evocarono la «norma Olivetti» tuonando: «Nessun dirigente pubblico può guadagnare più di dieci volte la busta paga di un suo dipendente». Zelanti e asini: con quel criterio il taglio sarebbe stato ben più drastico.
I primi a ricorrere furono gli alti magistrati, offesi dall’essere parificati al più alto di tutti, cioè al capo dello Stato. Dalle riduzioni vennero esentati i manager delle società pubbliche o semi pubbliche quotate in borsa con l’argomento (di legge) secondo cui sebbene sia il governo a nominarli le loro società rispondono al mercato. Nel concreto, come denunciarono Panorama e il Quotidiano Nazionale, molti aggirarono i limiti fissati dal decreto Renzi-Padoan. L’interesse aguzza l’ingegno: le società di cui erano amministratori lanciarono strumenti finanziari o obbligazioni mettendo così un piede nel mercato. Tanto bastò alle Poste e alla Cassa depositi e prestiti per sfangarla. Altri si sono fatti pagare la parte eccedente i limiti in premi, compensi legati ai risultati e benefit vari. Ma il caso più clamoroso sembra diventare quello degli amministratori e dei dirigenti Rai (giornalisti moralizzatori in prima fila). Un boomerang che, dopo la tranvata delle elezioni amministrative, rischia di assestare un altro duro colpo alla credibilità del presidente del Consiglio e al Partito democratico. Il tutto a vantaggio dei 5 Stelle. Come mai? Poco più di un anno fa, al momento della conversione in legge del decreto taglia stipendi, una deputata grillina propose a nome del suo gruppo un emendamento che estendeva l’efficacia della misura voluta da Renzi anche alla Rai. Con poche defezioni il partito del presidente del Consiglio votò contro e bocciò l’iniziativa. Eppure gli argomenti addotti erano inconfutabili: la Rai non poteva far valere l’esimente dell’essere quotata in borsa perché non lo è; appartiene alla prima fascia di società pubbliche classificate dal decreto e, «last but not least», la televisione di Stato si finanzia con il canone pubblico che i contribuenti sono obbligati a pagare con la bolletta dell’Enel per il solo fatto di possedere un apparecchio televisivo. Anche quelli che la Rai non la guardano.
Molti si sono scandalizzati leggendo l’entità dei compensi del tale e del tal altro. A occhio ci sarà da scandalizzarsi di più quando si conosceranno i dati sugli appalti e il gotha dei beneficiari. Povero Renzi: fa la legge, lascia che le stesse persone da lui scelte prima la ignorino e poi concedano agli indignati lo spogliarello pubblico coi soldi nel perizoma.