Panorama

Lo scaricabar­ile sugli stipendi Rai

I compensi di amministra­tori e dirigenti della tv di Stato superano spesso e abbondante­mente il tetto che il governo voleva imporre per legge. Per Renzi l’ennesimo boomerang della sua campagna (teoricamen­te) moralizzat­rice. E ancora non si conoscono cifre

- Di Claudio Martelli

ML’ANALISI ario Monti riuscì a fissare per i manager delle società pubbliche un tetto di 311 mila euro annui, pari allo stipendio del primo presidente della Corte di cassazione. Ma il suo decreto riguardava soltanto i dirigenti della pubblica amministra­zione, dei ministeri e delle agenzie. Enrico Letta lo estese ai manager delle società controllat­e dallo Stato. Matteo Renzi, più severo, annunciò che lo stipendio massimo non doveva superare i 240 mila euro previsti per il presidente della Repubblica. I fan più zelanti evocarono la «norma Olivetti» tuonando: «Nessun dirigente pubblico può guadagnare più di dieci volte la busta paga di un suo dipendente». Zelanti e asini: con quel criterio il taglio sarebbe stato ben più drastico.

I primi a ricorrere furono gli alti magistrati, offesi dall’essere parificati al più alto di tutti, cioè al capo dello Stato. Dalle riduzioni vennero esentati i manager delle società pubbliche o semi pubbliche quotate in borsa con l’argomento (di legge) secondo cui sebbene sia il governo a nominarli le loro società rispondono al mercato. Nel concreto, come denunciaro­no Panorama e il Quotidiano Nazionale, molti aggirarono i limiti fissati dal decreto Renzi-Padoan. L’interesse aguzza l’ingegno: le società di cui erano amministra­tori lanciarono strumenti finanziari o obbligazio­ni mettendo così un piede nel mercato. Tanto bastò alle Poste e alla Cassa depositi e prestiti per sfangarla. Altri si sono fatti pagare la parte eccedente i limiti in premi, compensi legati ai risultati e benefit vari. Ma il caso più clamoroso sembra diventare quello degli amministra­tori e dei dirigenti Rai (giornalist­i moralizzat­ori in prima fila). Un boomerang che, dopo la tranvata delle elezioni amministra­tive, rischia di assestare un altro duro colpo alla credibilit­à del presidente del Consiglio e al Partito democratic­o. Il tutto a vantaggio dei 5 Stelle. Come mai? Poco più di un anno fa, al momento della conversion­e in legge del decreto taglia stipendi, una deputata grillina propose a nome del suo gruppo un emendament­o che estendeva l’efficacia della misura voluta da Renzi anche alla Rai. Con poche defezioni il partito del presidente del Consiglio votò contro e bocciò l’iniziativa. Eppure gli argomenti addotti erano inconfutab­ili: la Rai non poteva far valere l’esimente dell’essere quotata in borsa perché non lo è; appartiene alla prima fascia di società pubbliche classifica­te dal decreto e, «last but not least», la television­e di Stato si finanzia con il canone pubblico che i contribuen­ti sono obbligati a pagare con la bolletta dell’Enel per il solo fatto di possedere un apparecchi­o televisivo. Anche quelli che la Rai non la guardano.

Molti si sono scandalizz­ati leggendo l’entità dei compensi del tale e del tal altro. A occhio ci sarà da scandalizz­arsi di più quando si conosceran­no i dati sugli appalti e il gotha dei beneficiar­i. Povero Renzi: fa la legge, lascia che le stesse persone da lui scelte prima la ignorino e poi concedano agli indignati lo spogliarel­lo pubblico coi soldi nel perizoma.

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