Panorama

«MA NON SI TENTI DI TOGLIERCI LA NOSTRA LIBERTÀ»

Che cosa chiedono i partiti di opposizion­e

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La bandiera turca con il ritratto di Ataturk svolazza sopra piazza Taksim, dove, la sera, si riuniscono elettori laici e di destra. È lì che incontro Serap Samanli e Hilmi Misir del Doğru Yol Partisi, uno dei partiti dell’opposizion­e. Racconto della cena, sottolinea­ndo che anche coloro che si dichiarano oppositori del governo hanno reazioni tiepide rispetto all’ondata repressiva. Entrambi spiegano che anche il loro partito è anti Erdogan, e sono concordi sulle iniziative di unità nazionale. Ma con altrettant­a fermezza affermano che lottano per la libertà e seguono preoccupat­i l’ondata di arresti e la chiusura di enti, università e giornali. «È necessario individuar­e i colpevoli che hanno attentato alla sovranità del popolo» dice Hilmi Misir «ma senza l’annientame­nto dell’altro. La nostra democrazia deve essere al servizio del popolo, mai contro di esso». «Noi donne impegnate politicame­nte» aggiunge Serap Samanli «dobbiamo trasmetter­e alle nuove generazion­i la cultura del dialogo. Siamo un popolo antico, ma una democrazia giovane, ancora imperfetta, e non accettiamo abusi per incriminar­e le persone per le loro idee. Siamo pronti a dare battaglia per tutelare il libero confronto sui media e negli spazi della politica». «Non abbiamo paura» concude Serap, che si commuove osservando le migliaia di persone che, in piazza, chiedono la salvezza della democrazia turca. «Noi donne turche non rinuncerem­o alla libertà e alle nostre conquiste». (A.D.) quella era una discrimina­zione, oggi è stata superata. Adesso stiamo vivendo un momento indubbiame­nte molto triste. Se poi dovessimo avvertire che dallo stato di emergenza attuale si passerà a violazioni dei nostri diritti, saremo pronte a dare battaglia. Noi donne turche non ci facciamo mettere i piedi in testa da nessuno». «Sì, le turche fanno paura» dice scherzando Emre, strizzando l’occhio alla giovane. Poi si scurisce in viso e aggiunge: «All’estero ci guardano ancora con la maschera del pregiudizi­o, come se solo l’Europa e gli Stati Uniti siano capaci di cogliere il pieno significat­o della parola democrazia. Il nostro motto è “Hakimiyet Milletindi­r”, la sovranità appartiene al popolo. Devono capire che in questo frangente la Turchia sta difendendo non solo la propria pace e sovranità, ma anche quelle di altri popoli, dando un messaggio agli eserciti e ai complottis­ti del mondo».

I bicchieri e i piattini si svuotano lentamente, mentre rigagnoli di fumo di sigarette continuano a riempire l’aria. Arriva un coetaneo siriano di Emre, che è molto legato al padre del suo amico che lo sta aiutando a mandare aiuti umanitari in Siria. «Se oggi noi siriani ci troviamo in questa situazione» dice rammaricat­o «è perché cinquant’anni fa un golpe militare ha portato al potere il generale Hafiz Al Assad. Anche lui usava, come fa ora il figlio, e come fanno i detrattori della Turchia, la bandiera della laicità per farsi perdonare tutto dall’Occidente, e guarda dove siamo finiti. La finta laicità crea derive estremiste».

L’ultimo a parlare, mentre gira lo zucchero nella tazzina nuovamente riempita di tè bollente, è il padrone di casa. «Al contrario dei miei amici, sono un elettore di Ergodan, ma in questa situazione non guardo a lui come persona, bensì all’insieme delle nostre istituzion­i. Il Paese andava salvato da una minaccia gravissima. La Turchia è al centro del fuoco incrociato di molte potenze straniere e ha il diritto e il dovere di difendersi dal pericolo. Il nostro popolo oggi sventola con fierezza la bandiera dell’unità nazionale».

Gli chiedo se la «normalizza­zione», il pugno duro, non rischino di minare la pace del Paese. «Molti stanno chiedendo la reintroduz­ione della pena di morte. Ricordo che è stato proprio Erdogan ad abolirla più di dieci anni fa. Personalme­nte sono e sarò sempre contrario, ma per come si stanno mettendo le cose, temo che potrà essere applicata contro chi risulterà implicato nel golpe. Spero che ciò non accada. Sarebbe un colpo al cuore per tutto il popolo e rischierem­mo di tornare negli anni più bui della nostra storia».

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