Nuovi equilibri
generale di Bruxelles non possono aver certo fatto piacere le parole riservate alla Nato dal candidato repubblicano alla presidenza Donald Trump. Ciò che ha preoccupato non è certo stato l’invito rivolto ai partner europei a fare di più per la difesa comune (innanzitutto in termini finanziari). Questo del resto è lo stesso monito che da anni (e inascoltato) il Segretario Generale di turno rivolge alla stragrande maggioranza dei governi europei (compreso il nostro). Ma è l’avvertimento a non dare per scontato Il presidente turco Erdogan (a destra) con Vladimir Putin. Dopo aver accusato la Cia per il fallito golpe, Erdogan si è riavvicinato alla Russia (i due si vedranno a San Pietroburgo il 9 agosto). un intervento americano a sostegno dei membri più esposti (in particolar Donald Trump ha citato l’Estonia) ad aver creato sconcerto, perché in grado di minare la credibilità dell’articolo 5 (il patto di reciproca difesa in caso di attacco), architrave del Trattato, capace per quasi 70 anni di assicurare stabilità e coesione dell’Alleanza. Anche nell’ipotesi di una vittoria di Hillary Clinton, non è che i fattori di preoccupazione scomparirebbero d’incanto. Ciò che è evidente da parecchio tempo è la debolezza della leadership americana, manifestatasi anche al recente Vertice di Varsavia sul dossier afghano. Obama ha prorogato di un anno la durata della missione Resolute Support (il seguito di Isaf), senza peraltro dare l’impressione di avere in mente una via d’uscita che non coincida con il ritorno al potere dei talebani o, persino peggio, con la cronicizzazione di una nuova fase di guerra civile aperta, oltretutto con l’innesto della presenza sempre più incisiva di Daesh (si veda l’attentato con oltre 80 morti a Kabul, lo scorso 23 luglio, rivendicato dallo stato islamico). Nel frattempo Obama ha chiesto agli alleati di continuare a contribuire alla missione: invito prontamente raccolto dal governo Renzi. Poi c’è la lotta all’estremismo islamista; assodato che non può rappresentare la ragion d’essere esclusiva per un’organizzazione pesante, molto istituzionalizzata e accusata (a volte in modo superficiale) di essere pure costosa, va pur detto che la convergenza di interessi con la Russia su questo obiettivo rende ancora più complicata politicamente la scelta di continuare a considerare Mosca il principale sfidante strategico, come la decisione assunta a Varsavia di schierare quattro brigate miste nelle repubbliche baltiche e in Polonia ha ribadito (anche in questo caso l’Italia sarà della partita con 150 uomini). Insomma il fronte mediorientale potrebbe non essere così facilmente sintonizzabile con quello orientale, come appare particolarmente evidente nel caso del dossier turco. Con il secondo esercito della Nato e da sempre «naturalmente» avversario della penetrazione russa verso il Mediterraneo, la Turchia di Erdogan ha compiuto nelle ultime settimane l’ennesima inversione di rotta, riavvicinandosi a Mosca fin troppo rumorosamente. La mossa ha acquisito una connotazione ancora più preoccupante dopo il fallito golpe militare del 15 luglio e il riuscito controgolpe di Erdogan nei giorni successivi. Le accuse di assistenza da parte americana ai golpisti, fatte filtrare da Ankara, unite alla richiesta di estradizione per il predicatore moderato Gulem (ex amico e ora nemico giurato di Erdogan e da quest’ultimo pretestuosamente accusato di essere il regista della sollevazione militare) lasciano prevedere una crisi nei rapporti tra Washington e Ankara, già tesi per lo scarso entusiasmo mostrato dalla Turchia nella lotta contro Daesh in Siria: e una crisi così articolata e grave non potrebbe non avere riflessi sullo stato di salute e sul futuro dell’Alleanza. Dopo la Brexit dalla Ue, un’eventuale Turkxit dalla Nato avrebbe effetti devastanti sugli equilibri internazionali.