OPEN, La mia storia
con se stessa e si risponde pure? Più che uno sport individuale è uno sport solitario. Sei come su un’isola: tu e l’avversario, devi trovare la soluzione, da solo, per un problema tecnico, per un problema tattico, per ogni cosa. E devi lasciare le emozioni negli spogliatoi, altrimenti non puoi portare a termine il lavoro che devi fare sul campo, esaltando le cose che fai meglio e costringendo l’avversario a fare peggio quelle nelle quali eccelle. È anche uno sport che può rendere molto ricchi. Ma è anche vero che lo sport ad alto livello ti fa passare un terzo della tua esistenza senza prepararti agli altri due terzi. E poi paghi continuamente il conto di quegli sforzi fisici: io personalmente, da quando ho smesso, non sono mai stato più davvero bene e passo da un problema all’altro. Forse perché il mio gioco non era fatto di punti veloci, ma di lunghi e studiati scambi da fondo, e quindi di partite sempre dure. Però lo sport le ha insegnato molto da trasmettere ai figli. Impegnarsi, rispettare il proprio corpo e l’avversario, accettare le regole… Quel che mi fa più felice è quando Jaden e Jaz si spingono davvero, in qualsiasi attività facciano, cercando il proprio limite. L’educazione all’impegno, per le nuove generazioni, è importante come ogni altra educazione, io ci sono arrivato dalla porta di servizio, ora sono felice di darla ai miei figli e alle persone che cerco di aiutare con la beneficenza. Infatti lei non ha due figli soli reali, ma molti di più virtuali. Fare beneficenza è un modo per restituire parte del tanto che il tennis mi ha dato. Se cambia la vita di un bambino cambi anche il mondo. E per me vale più che vincere un torneo di tennis. Con la differenza che, sul campo, vedi subito il risultato, in queste mie attività
(Einaudi, 502 pagine, 14 euro) è uscito in Italia nel 2011: racconta il suo amore/odio per il tennis, sport per il quale Andree Agassi possedeva un talento eccezionale. ci vuole più tempo, ma il mio obiettivo, adesso, è superare i risultati che ho avuto nel tennis. Il tennis, comunque, non lascerà mai Agassi. Mi ha dato la base per fare quel che faccio. Anche se gioco poco, e non faccio tante cose direttamente connesse col tennis, non perderò mai di vista che è stato la maggior parte della mia vita. Oggi non penso alle prime volte che ho vinto uno Slam, le prime volte sono quelle che ricordi di più in ogni cosa che fai, non penso alla soddisfazione di recuperare il numero 1 del mondo o di vincere l’oro olimpico ad Atlanta, il mio successo più bello resta quando ho convinto Steffi a dirmi di sì, e il trofeo più bello è la collana di corda che mi ha fatto mio figlio quando aveva quattro anni, c‘è scritto: «Babbo scatenato». Una volta un figlio e un matrimonio equivalevano alla fine della carriera. Ora il circuito del tennis è pieno di coppie ufficiali e babysitter. L’importante è gestire le situazioni, la famiglia può essere una fantastica distrazione dagli stress di allenamento e gara. È un’esperienza che ho vissuto anch’io: era bellissimo sentirli ridere e scherzare, per esempio a colazione. I bambini di Federer, Djokovic e Murray sono ancora piccini, non hanno bisogno d’educazione, è più giusto che stiano assieme ai genitori piuttosto che a scuola. Il tennis ha regole ferree, ci sono regole per i due adolescenti di casa Agassi? Steffi e io abbiamo i «family moment» ai quali siamo molto attaccati, a cominciare dal pranzo, tutti assieme. Allora spariscono iPad, e cellulari, basta social media ed esiste soltanto la famiglia.