ORA VA DI MODA IL MARCHIO «AGENTE STRANIERO»: UN RITORNO ALLA
Sta tornando il freddo a Mosca. La temperatura ideale per le spie, per gli intrighi, gli sguardi di sottecchi e le belle siberiane che sembrano appena uscite dal thriller Gorky Park. E tra le vie della capitale russa, larghe come autostrade e fra i palazzoni dallo stile discontinuo, si sta scrivendo il romanzo di spionaggio del nuovo Millennio. Ma fiction non è.
Se ne sono accorti gli americani, a partire dalla candidata alla presidenza Hillary Clinton: le sue mail sono state rese pubbliche grazie ai raid degli hackers russi. Ma ancora più imbarazzanti le rivelazioni sugli atleti Usa dopati «legalmente», altra verità scomoda rubata, pare, dai pirati informatici di Mosca e gettata in pasto ai media mondiali (vedi riquadro qui sotto).
Una sfida a Washington che va avanti da tempo. Dalle Hawaii Edward Snowden, che scriveva della Cina «non mi pare il Paese più divertente al mondo», si ritrovò, dopo una serie di rocambolesche avventure, all’aeroporto moscovita di Sheremetevo. L’ex tecnico della Cia, detentore di supersegreti, ancora risiede in Russia, con un permesso di soggiorno di tre anni concesso nell’agosto 2014. «Era bianco in volto, giovane, così giovane da sembrare un bambino e nello stesso tempo mostrava un’incredibile consapevolezza di sé: citava la Costituzione americana e diceva che quello che stava facendo, lo faceva proprio perché era un patriota» racconta a Panorama Polona Frelih, slovena, l’unica reporter al mondo ad aver visto in faccia l’uomo del Datagate, a Mosca nel 2013.
«A Sheremetevo c’era puzza di Guerra fredda, molti 007 in giro, non solo russi ma anche occidentali: sembrava di stare in un film di spionaggio hollywoodiano. E io, dopo il mio incontro con Snowden, ho avuto il cellulare fuori uso per almeno due giorni. Per settimane, mentre camminavo per strada, mi voltavo spesso, per guardarmi alle spalle».
Quello che colpisce ancora oggi nella vicenda Snowden è la defezione per motivi ideologici. Roba che non si sentiva dai tempi di Ronald Reagan, quando Oleg Gordevskij, spia sovietica figlio di spia sovietica, disertò per l’Occidente. Era il 1985. C’era ancora il walkman. Oggi c’è la realtà virtuale e c’è Snowden, che negli Usa rischia fino a 30 anni di carcere e dalla capitale russa si collega in webconferenza per chiedere la grazia a Barack Obama.
Da quando questo 33enne minuto, al quale Oliver Stone dedica il suo ultimo film, è apparso sulla scena, la criticità dei rapporti tra Russia e Usa ha assunto una pendenza ben più vertiginosa. Simile agli anni Settanta, ma con una comunicazione fulminea, attacchi cibernetici e violente battaglie delle parole, spesso scatenate da Julian Assange, fondatore di WikiLeaks. Il New York Times ha scritto che il suo antiamericanismo fa un favore al Cremlino. Il diretto interessato ha replicato tacciando Hillary Clinton di «neomaccartismo isterico». Mentre in Russia è tornato in voga il marchio «agente straniero»: ai tempi dell’Urss si usava per i «sabotatori». Un ritorno al futuro della paranoia? Formalmente oggi indica le società che ricevono fondi dall’estero. Da ultimo è stato affibbiato all’istituto demoscopico Levada, considerato indipendente (vedi riquadro a destra).
La Mosca di oggi, non più buia e tutta casermoni, ma illuminatissima ipermoderna metropoli con qualche tocco soviet, si ripropone quindi come città delle spie. «Lo è sempre stata, anche ai tempi degli