Ibm: l’Italia è in grave ritardo digitale
Siamo al 25° posto in Europa, denuncia l’amministratore delegato di Ibm Enrico Cereda. «Le imprese investano di più».
Enrico Cereda, amministratore delegato di Ibm Italia: «Segnali positivi dall’amministrazione pubblica». l ritardo digitale italiano è grave, preoccupante. Con la sola eccezione di qualche segnale nuovo dall’amministrazione pubblica»: un po’ sorprendente ma molto documentato, il giudizio è di Enrico Cereda, amministratore delegato di Ibm Italia, che con Panorama fa il punto sulle cifre e le cause di questo gap digitale e su quanto il suo gruppo, leader mondiale nelle soluzioni informatiche sia per le aziende che per le istituzioni, sta facendo e conta di fare in Italia. «Il nostro Paese è al 25°posto sui 28 Paesi dell’Unione europea per digitalizzazione perchéperch finora è mancata una chiara politica industriale. Si calcola che questo ritardo sia pari a 3-5 anni, anche perché si aggrava sempre più, rispetto all’Industrial compact 2 di Bruxelles». Niente che vada meglio?meg Solo tinte fosche? L’unica eccezione, dicevo,dic è rappresentata dai servizi digitali della pubblica amministrazione, grazie alla spinta dell’Agenzia perpe l’agenda digitale. Cioè paradossalmenteparadossalmen i privati sono messi peggio? Vediamo i dati. SpendiamoSpend pochissimo in ricerca e sviluppo rispetto ai partnerpa europei: l’1 per cento del Pil. I tedeschi il 2,6. Solo l’8 per cento delle imprese usa l’e-commerce. Siamo ancora al 5° posto per l’adozione di soluzioni cloud, utilizzateutili solo dal 20 per cento delle impreseimpr con oltre 100 addetti. Ma anche il pubblico zoppica… Certo, solosol il 14 per cento dei Comuni è oggi raggiuntoragg dalla banda ultra larga, in particolareparticola questa risorsa scarseggia nei distretti industriali e nell’insieme il 65 per centocen delle aziende si trova nelle aree areem mal servite. Il wi-fi libero è poco diffuso,diffuso mentre sarebbe già il tempo della rete 5g. Eppure qualcosa si è mosso neglinegl ultimi anni. Penso all’Inps, «
Iall’Inail o alla Sogei. Ci aspettiamo molto dai piani del premier. Del resto, le piccole e medie imprese, per essere efficienti, hanno bisogno di una pubblica amministrazione efficiente. E voi, come Ibm, che state preparando per il mercato italiano? Poco più di un anno fa abbiamo avviato vicino Milano uno dei cinque cloud data center europei del gruppo, 50 milioni di investimento a sostegno dell’ecosistema nazionale. Contavamo di saturarlo, dobbiamo addirittura allargarlo. È parte di un network mondiale di oltre 40 strutture gemelle per lo sviluppo del quale Ibm ha investito 1,2 miliardi di dollari dal 2014. E anche così stiamo aiutando la crescita di ogni tipo di organizzazione, start-up comprese. Allora qualcosa si muove anche nel privato… Sì, ma si deve fare molto di più. Anche perchè ci aspetta la sfida dell’internet delle cose, fondamentale per quel che si definisce Industry 4.0. Cioè? Cioè l’enorme arricchimento che intelligenza artificiale e sensoristica possono apportare alle nostre imprese, fino a ridefinirne in molti casi il modello di business. Un’opportunità essenziale per le piccole e medie imprese, un fronte su cui l’Italia è in ritardo: per numero di oggetti connessi, da noi l’internet delle cose rappresenta lo 0,16 per cento di quello mondiale mentre l’economia nazionale vale quasi il 2 per cento di quella globale. Ad oggi, secondo uno studio dell’Università di Brescia, solo il 5 per cento delle aziende manifatturiere italiane dichiara di conoscere il valore aggiunto che l’internet delle cose potrebbe generare. Ma quanto costa? Calcoliamo che serviranno 8 miliardi all’anno per i prossimi 5 anni, ma investendoli riporteremmo il settore manifatturiero dal 16 al 20 per cento del Pil, cioè incrementandolo di 60 miliardi di euro. Soldi pubblici? Soprattutto privati. Anche se mi piace il tentativo del governo di garantirsi maggiore flessibilità dalla Unione europea per mettere in campo, tra l’altro, risorse da destinare a investimenti ad hoc. I segnali in ogni caso sono incoraggianti, come dimostra il Piano Italia 4.0 e il suo mix di incentivi fiscali, sostegno al venture capital, diffusione della banda, formazione scolastica e centri di ricerca d’eccellenza. Mi sembra la cura giusta e il plauso va al ministro dello Sviluppo