DURANTE LE PRIMARIE, GLI OPPOSITORI ANO DI ESSERE, SE ELETTA, UNA «PRESIDENT OF WAR»
preoccupa Dipartimento di Stato e Pentagono. Non solo la potenza cinese è in continua ascesa, mentre la sua leadership appare sempre meno timida e timorosa di confrontarsi anche con gli Stati Uniti per la supremazia nel Mar della Cina e nel Pacifico settentrionale. Anche la Russia di Vladimir Putin, che nel corso di un ventennio ha sostanzialmente quasi colmato il gap tecnologico militare nei confronti degli Usa, è tornata prepotentemente a sfidare la sempre più affaticata egemonia globale degli Stati Uniti: dall’Ucraina alla Siria, dal Baltico al Mediterraneo. Il Cremlino ha piazzato missili nucleari tattici (in grado di colpire Berlino) a Kaliningrad, ha presentato un nuovo missile balistico dal poco rassicurante nome di Satan2, ha mandato la sua (unica) portaerei, il Kuznecov, nel Mediterraneo. E intanto sta riuscendo nell’impresa di instaurare un confronto positivo con Iran, Israele e Arabia Saudita. Contemporaneamente. A far da contorno, come se il quadro appena rappresentato non fosse sufficientemente preoccupante, ci sono questioni come il riarmo nucleare nordcoreano o il caos libico sempre sul tappeto…
Ha quindi fatto bene Hillary a spostare l’attenzione sulla politica estera dove, oltretutto, lei vanta una ben più reale esperienza rispetto a otto anni fa, quando trasformò un tranquillo e innocuo tè tra signore a Sarajevo di qualche anno prima nel racconto di una sorta di «mission impossible», con tanto di atterraggio «sotto il fuoco dei cecchini». Quattro anni da Segretario di Stato le consentono di poter fare a meno di simili «fantastorie». Eppure la sua esperienza non è stata propriamente senza intoppi. Delle sue reticenze, omissioni e mezze verità sull’omicidio dell’ambasciatore americano in Libia si è parlato molto diffusamente. Ben più preoccupante, per i suoi critici, sono i trascorsi, pessimi, con la Russia di Putin. Il lancio di una «nuova fase» delle relazioni russo-americane era stato il principale compito affidatole dal presidente Obama. I risultati furono assai modesti; eppure Mosca e Washington erano infinitamente meno lontane di oggi. E sono molti in queste settimane a chiedersi quanto il pessimo feeling tra il macho Vladimir e la
femminista Hillary potrebbe complicare ulteriormente la sempre più tesa relazione col Cremlino.
Già durante le primarie, i suoi oppositori democratici la accusavano di essere, se eletta, una «president of war», in grado di trascinare nuovamente l’America in guerra in Medio Oriente, troppo vicina agli interessi israeliani e (soprattutto) sauditi per non esserne condizionata. Allora, le relazioni con la Russia non si erano ancora così deteriorate e, soprattutto, Putin non aveva chiarito, oltre ogni ragionevole dubbio, la sua volontà di fare della Russia il nuovo pivot della regione, l’arbitro del cui parere non si potesse non tener conto. La piega presa dalle ultime settimane della campagna presidenziale, con le insinuazioni rivolte a Trump di essere una marionetta nelle mani di Putin e con le accuse mosse a quest’ultimo di voler manipolare l’esito del voto, fanno ritenere che il rapporto tra il presidente russo e quella americana potrebbe complicarsi pericolosamente.
Hillary esibisce con orgoglio la sua forza di carattere e la sua determinazione come una qualità che ne faranno un «commander in chief» affidabile, in grado di essere dura quanto serve ma capace di non farsi trascinare fuori rotta dalle correnti più impetuose. Inaspettatamente, però, nelle scorse settimane è partito il fuoco amico. In un articolo pubblicato dal New York Times, schierato come non mai in questa campagna a favore di uno dei candidati, e velenosamente intitolato «i pericoli di Hillary Clinton», Ross Douthat ha lanciato un micidiale siluro alla corazzata Hillary, accusandola sostanzialmente di non possedere una propria, autentica «vision». Clinton sarebbe incapace di non allinearsi al pensiero dominante presso il gruppo dirigente liberalfinanziario di Washington e Wall Street: era a favore della guerra in Iraq quando nella èlite del potere americano lo erano tutti, ed è stata contro l’aumento delle truppe sul campo quando lo sono diventati tutti. E lo stesso vale per le sue posizioni sulla Russia o sulla crisi finanziaria.
Così, mentre è altamente improbabile che Hillary possa fare qualcosa che le élite cosmopolite europee o americane considererebbero stupido, difficilmente sarebbe in grado di capire quando esse potrebbero esprimere posizioni non sagge né ragionevoli, per la convinzione errata che un’idea è diffusa e condivisa tra le élite non possa comunque essere anche sciocca: una sindrome tipica di quella che Indro Montanelli definiva la sinistra «radical-chic».