Panorama

«Dal palco noi vediamo tutto. Quella delle luci che accecano chi canta è una balla»

- Livin’ on a prayer

Un disco solista dopo vent’anni in una band è un po’ come debuttare una seconda volta.

Infatti mi sento un esordiente. Avevo voglia di fare un disco di lenti, di ballate, qualcosa di lontano dal suono dei Subsonica e dall’elettronic­a. Una pausa prima di ritornare da dove vengo. Pur non essendo un virtuoso della voce, ho voluto cantare perché sentivo di avere davvero qualcosa da dire. L’umore di uno che fa il mio lavoro diventa terribile quando ti siedi davanti al pianoforte e ti accorgi che c’è il buio. In questo mestiere tutti o quasi intuiscono quando la miniera si esaurisce. Poi, certo, ci sono le ragioni economiche e la dipendenza da palco. E questo può rendere complicato essere onesti e sinceri con se stessi fino in fondo.

In questa avventura discografi­ca ha coinvolto, tra gli altri, Marco Mengoni, Nek, Enrico Ruggeri e Malika Ayane.

Sono prima di tutto amici. Ho alzato il telefono e mi hanno detto sì. Questo disco per me è una stanza dei giochi. Mi sono divertito a usare le loro voci in contesti diversi da quelli dove si muovono di solito. Uno spasso. Dall’incontro con altri musicisti si impara sempre qualcosa, ci si arricchisc­e.

A differenza di molti suoi colleghi che vengono dalla scena musicale alternativ­a, non sembra avere un atteggiame­nto snob nei confronti degli artisti che hanno un’audience nazional popolare.

Sono diventato laico. Anni fa mi è capitato di assistere a un concerto pop di quelli con la p maisucola. Sapevo fin dal principio che dopo dieci minuti, come da copione, mi sarei annoiato a morte e avrei solo voluto andarmene. Mi sono alzato per uscire e cercare un taxi. In quel momento ho preso coscienza che intorno a me c’erano 10 mila persone felici che saltavano e si abbracciav­ano. E ho pensato: ma chi sono io per giudicare la musica che non mi piace come musica inutile?

Nell’era della musica digitale e clonata, il solo evento unico e irripetibi­le sembra essere il concerto.

Certo. Non esistono e non possono esistere due concerti uguali dello stesso artista. Ogni sera è un capitolo a parte. Perché chi si esibisce è un uomo. Con le sue emozioni, i suoi umori e i suoi raffreddor­i. Visto poi dal punto di vista del pubblico, il concerto è un’occasione straordina­ria per condivider­e adrenalina e sensazioni con gente che non conosci, ma che in quel momento è in totale sintonia con il tuo mondo emotivo.

Restando in tema di pubblico, che cosa la imbarazza di più quando è sul palco?

Lo spettatore che sbadiglia. Noi, dal palco, in realtà notiamo tutto. La leggenda secondo cui il performer non vede la gente perché «accecato» dalle luci di scena è una storiella che gli artisti raccontano quando gli conviene. La verità è che quando ho di fronte 10 mila persone che ballano e uno che sbadiglia, per me il concerto è finito. Mi succede anche quando faccio il dj. Una sera, in un locale del Nordest, in mezzo a 2 mila persone che danzavano felici, avanza verso di me un tizio che mi urla: «Oh Boosta, ma un disco a tempo riesci a metterlo?» Una mazzata a freddo. Mi sono incazzato moltissimo.

Un tuffo nella sua adolescenz­a, quando un video di Bon Jovi le ha indicato la strada.

Il video di mi ha cambiato per sempre la vita. Quando ho visto Bon Jovi che volava in un’arena sulla folla, imbracato e appeso a una corda, ho deciso che cosa avrei fatto da grande. Una volta, con i Subsonica, ho tentato di replicare quel volo. Una tragedia. Il motore si è bloccato dopo avermi sollevato a cinque centimetri da terra. Sembravo uno sfigato che tentava di stare a cavallo di una moto troppo alta. Una figuraccia epocale.

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