Panorama

Il messaggio del Giorno della Memoria

Milioni di ebrei hanno perduto la vita nei campi di sterminio nazista, ma nei cuori dei loro cari resteranno incisi per sempre i loro nomi. E soprattutt­o, come ha voluto ricordare Papa Ratzinger durante la sua visita in Israele del 2009, quei nomi restera

- Di Alessandro Turci

RL’ANALISI aramente rivedrò Gerusalemm­e come l’11 maggio 2009. La città era un rendering lunare e appariva totalmente disabitata per chi, come me, la osservava da un monitor di sicurezza mentre il convoglio di Benedetto XVI correva verso Yad Vashem, il Memoriale della Shoah. Come d’uso la Santa Sede aveva anticipato, sotto embargo, il discorso del Papa. In attesa che il convoglio raggiunges­se la meta, avevo iniziato a leggere senza molta convinzion­e quello che mi aspettavo fosse un discorso convenzion­ale. Invece Joseph Ratzinger quel giorno attinse alla sua icastica intelligen­za teologica e parlò di cosa sono e significan­o i nomi citando Isaia, il libro forse più carismatic­o della Bibbia. Disse il Papa: «Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilment­e incisi nei cuori dei loro cari (…) i loro nomi, in particolar­e e soprattutt­o, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio».

D’altronde, per ebraismo e cristianes­imo, il veicolo per il mezzo del quale Dio si rivela da principio nelle Scritture è precisamen­te il suo nome. Yad Vashem è tratto da Isaia: «Io darò loro, nella mia casa e tra le mie mura, un monumento (yad) e un nome (shem) più che se fossero figli e figlie; io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato».

L’Albero della Vita del ghetto di Budapest, voluto da Bernard Schwartz, famoso agli onori del mondo come Tony Curtis, riporta incisi sulle foglie i nomi delle vittime dell’Olocausto lì consumato e illumina il significat­o delle parole di Ratzinger soprattutt­o per le foglie rimaste intonse, senza nome. Nella mente di Dio, nessun nome manca.

Possiamo oggi rileggere Ungaretti, che frequentò la metafisica e l’orrore della Grande guerra, quando scrive: «Ma nel cuore/nessuna croce manca» e anche Paul Éluard: «Il fallait bien qu’un visage/réponde à tous les noms du monde.»

Nella diaspora che ha tessuto il mosaico dell’Europa oltre il Volga, la meno nota, dove l’ebraismo incontrò la terra barbarica (per dirla con Karol Modzelewsk­i), le parole si sono tramandate nell’equilibrio tra l’autorevole­zza della Tanakh e quello dell’yiddish gergale, la lingua imprecisa che ha unito i destini tragici della borghesia assimilata, dei mercanti e dei bohémien, a milioni caduti nella Shoah.

Yad Vashem è un’espression­e passata poi dai campi profughi post-conflitto prima della nascita di Israele, prima del viaggio verso l’ancestrale terra promessa. Yad Vashem come il linguistic turn dell’identità ebraica, la babele linguistic­a dove «baIII» è anche un banale pronome plurale della lingua russa di pronuncia quotidiana e rimanda all’immensa regione russofona in perenne contraddiz­ione tra pogrom e accoglienz­a, o all’Armata rossa che varca il cancello di Auschwitz in quel gelido 27 gennaio 1945. Ma Yad Vashem è anche un balsamo a lento rilascio, che vede per Yad l’omonimia col puntatore che si usa per leggere la Torah, oppure le varianti di Shem, che l’yiddish declina nei sinonimi di reputazion­e, fama, prestigio o nello stesso nome divino.

La sacralità dei nomi e la loro unicità: questo è il messaggio profondo del Giorno della Memoria, perché nessun nome manca nella mente di Dio come ci ricordava Joseph Ratzinger a Gerusalemm­e: «Io darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato». È una visione potente che allude forse all’inaccessib­ilità del Dio di Lutero, ma è confortant­e. La Memoria, in altre parole, come forma della Grazia. Un insegnamen­to anche per i laici. E per chi vive le barricate della Palestina odierna, che una volta provate di persona non si dimentican­o più.

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