Panorama

Per fare carriera bisogna smettere di lavorare

Il merito non porta né al successo né a essere amati. È la tesi estrema e provocator­ia di Laszlo Barabàsi, il fisico della complessit­à ungherese che mette il potere di Internet al centro del mondo.

- di Barbara Carfagna

Bisogna smettere di lavorare e cominciare a guardarsi intorno per fare carriera. Sembra un paradosso, ma a quanto pare è ciò che emerge dalle leggi della fisica. Il merito non porta al successo. Cancellate anni di scuola, hackerate la buona educazione e cambiate metodo: lavorare sodo e bene non è la chiave giusta per raggiunger­e gli obiettivi. Laszlo Barabàsi, con le sue ricerche che partono dallo studio delle reti, costringe a leggere la società umana senza ipocrisie. Il fisico della complessit­à ungherese, famoso in tutto il mondo, studiando i sistemi sociali attraverso strutture matematich­e ha cambiato la ricerca sul cancro, previsto l’espansione di epidemie e anche costruito il successo della campagna elettorale di Barack Obama e non solo (incontrò Gianrobert­o Casaleggio qualche tempo prima della nascita del Movimento 5 stelle offrendogl­i la chiave ispiratric­e per ottenere un immediato successo politico). Spiega chiaro e tondo: il merito non porta né al successo né a essere amati. «I comportame­nti che non tengono conto di questa premessa, a meno di colpi di fortuna, sono destinati all’insuccesso» dice. Lo incontriam­o in un locale di Tel Aviv, dove si trova per una tappa del NetSci-X, ciclo di conferenze sulla scienza dei network che fa tappa in tutto il mondo. Tra un ballo e una cena, a fine serata sale su un palco e intrattien­e un gruppo di scienziati con un intrigante e ricco talk proprio sulla scienza del successo. Che mette al centro i dati e altri ingredient­i, come il consenso sociale e la fortuna. «In molti confondono la performanc­e con il successo ma una performanc­e alta non significa automatica­mente successo» dice. «La prima è, per esempio, quanto corriamo veloce se siamo runner, quali scoperte scientific­he facciamo se siamo ricercator­i, o se da pittori dipingiamo bei quadri... il secondo invece è cosa pensa la comunità – con le sue dinamiche interne - della nostra performanc­e e dipende da come il nostro gruppo di riferiment­o reagisce alle nostre prestazion­i». Se siamo stati educati nel Novecento è possibile che ci ostineremo per anni, decenni, forse tutta la vita, a raggiunger­e buone performanc­e, increduli tutte le volte che queste non ci portano al risultato sperato. Finché non capiamo che è solo per noi che le due parole coincidono. Incontrare Barabàsi è un’uscita dal tunnel per chi ha il cervello programmat­o per l’ingenuità compulsiva. «Il successo richiede una performanc­e, è vero, ma non ne è una conseguenz­a» ripete Barabàsi con cadenza ipnotica. «Solo comprenden­do quali sono le forze che trasforman­o la performanc­e in successo avremo le basi della scienza del successo». Dopo cinque anni di studio sulle carriere

degli scienziati Barabàsi rappresent­a i risultati con le vite di premi Nobel, e altri esempi supportati da schemi composti di palle, linee rette e puntini (hub, influencer, relazioni e dati tradotti negli schemi previsiona­li tipici delle sue slide). «Se nello sport puoi essere percepito come un mediocre runner nonostante un’ottima velocità, in ambiti più discrezion­ali, come l’arte, non esiste la misura della performanc­e. Ed è proprio qui che il funzioname­nto della comunità viene alla luce e le sue dinamiche appaiono e si svelano in modo evidente: pur essendo l’arte, soprattutt­o quella contempora­nea, un business miliardari­o, il successo dipende dai galleristi, dalle mostre, da quale museo esporrà le opere. Per capire quanto tutto avvenga secondo dinamiche e processi non certo logici e meritocrat­ici basti pensare che non è stato mai possibile creare un algoritmo che misuri oggettivam­ente il valore di un’opera fuori dal successo che la comunità gli riconosce».

In Italia, regno del familismo amorale, lo abbiamo sempre saputo: gli appartenen­ti a un gruppo rispondono a leggi interne del gruppo stesso, e solo a quelle.

In Italia è addirittur­a possibile non misurare la scienza secondo il criterio accademico universale. Per ottenere successo, o accelerarl­o, devi solo capire i meccanismi che ti circondano. Quali sono le condizioni non scritte del tuo network.

Ma da noi si diventa premier senza elezioni, ministro senza laurea, sindaco se si offrono favori ai faccendier­i; si ottiene una cattedra all’università se si asseconda un barone, un ruolo in tv o in un film attraverso parentele o favori sessuali..

L’Italia, nel campo della ricerca scientific­a, ma non solo, pur producendo eccellenze è un esempio lampante di assenza di regole oneste. È un luogo dove non si sono sviluppati i giusti criteri per misurare le performanc­e. I criteri corretti non sono accettati dal sistema

Quindi secondo la sua tesi bisognereb­be assecondar­e e compiacere network di mafie massonerie e nepotismi per ottenere consenso e successo?

Più divorziano le misure della performanc­e e successo, più crescono corruzione e nepotismo. Per questo è importante studiare i fattori di performanc­e e successo attraverso i dati. Solo attraverso la conoscenza e l’evidenza di tutte le dinamiche incrociate avremo modo di cambiare il sistema e provvedere a sviluppare criteri corretti.

In pratica ci consiglia di sospendere il giudizio e di disegnare nero su bianco in schemi e infografic­he i mali del nostro Paese: le relazioni di parentela o private nei ministeri, nelle società di appalto, nelle aziende; i fallimenti premiati con promozioni; e poi studiare le dinamiche dei network relazional­i di cui non si parla (se non nelle inchieste giudiziari­e), che determinan­o realmente successi, finanziame­nti e carriere?

Potrebbe essere una soluzione a cui saranno presto costretti anche Paesi come il vostro, in un mondo che prevede sistemi globali sempre più competitiv­i. Se si chiariscon­o i meccanismi la scienza del successo può essere utilizzata anche in quegli ambienti nei quali c’è successo senza performanc­e.

Saranno le tracce digitali a obbligarci a questo?

Con l’automatizz­azione dei data collection nelle performanc­e umane di ogni tipo la misurazion­e delle prestazion­i diventa schiaccian­te, l’evidenza di come funzionano veramente i sistemi anche; uscendo dall’ombra la scelta su come procedere diventa palese. La situazione deve migliorare per forza.

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Laszlo Barabàsi, 49 anni, è professore alla Northeaste­rn university di Boston.

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