Che cosa non ci insegnano greci e latini
L’antichità è attuale come non mai. I licei classici hanno un aumento degli iscritti. E nelle classifiche dei libri volano ai primi posti i saggi che magnificano le virtù delle lingue morte. Dietro a questa difesa della tradizione si nascondono però alcun
In tanti, ultimamente, sono scesi in campo per difendere gli studi classici. Proposito nobilissimo. Ma da chi dobbiamo difenderli? Certo, da scientisti impenitenti come Piergiorgio Odifreddi che, se potesse, cancellerebbe tutta l’istruzione umanistica. O da chi dice che greco e latino «non servono» (mentre, com’è noto, la trigonometria ha ripercussioni immediate sulla vita di tutti noi).
Questi sono punti di vista vecchi, impregnati di positivismo ottocentesco. Ma altrettanto vecchie, a volte, sono le armi dei volonterosi paladini del liceo classico. C’è uno scialo di retorica: i classici baluardo della «cultura occidentale», le lingue morte «palestra per la mente».
Gli ultimi mesi hanno visto il successo di libri come La lingua geniale: 9 ragioni per amare il greco (Laterza) di Andrea Marcolongo, che è riuscita nell’impresa di vendere 70 mila copie con un saggio in cui si palpita per l’aoristo e si sospira sull’ottativo. Sulla stessa scia si è messo Nicola Gardini, con il più pensoso Viva il latino (Garzanti). Proprio Gardini, in un articolo sul Sole24Ore, sotto il pomposo titolo In difesa del liceo classico, scuola modello per l’Occidente, scriveva che chi esce dal classico «sa parlare, sa scrivere, sa pensare, sa riconoscere il duraturo e l’effimero, capire la libertà, la bellezza, la varietà e la concordia». Se fosse vero, non sarebbe una scuola ma una pozione magica.
Un salutare antidoto a questa retorica è il libro di Maurizio Bettini, A che servono i Greci e i Romani?, appena uscito per Einaudi. Bettini invita a lasciare da parte certi luoghi comuni (il latino come «lingua logica» per eccellenza: come se le altre fossero «illogiche») e racconta il paradosso di una scuola dove, spesso, s’imparano tutte le regole grammaticali ma quello che si fa di meno è proprio leggere i testi.
Una lingua, ovviamente, va imparata per tradurre, cioè per comprendere un mondo che, come quello greco o latino, è molto diverso dal nostro. Bettini ha suggerito di modificare la prova della maturità, sostituendo alla versione un brano, contestualizzato, del quale dimostrare, anche rispondendo a qualche domanda, la piena comprensione.
Si è scatenata una polemica furibonda: si vuole uccidere il nobile esercizio del tradurre, hanno tuonato alcuni, annacquare la severità degli studi. Un gruppo di valorosi ha creato una «task force per il classico» (potevano almeno chiamarla «legione» o «falange»). Ma «tradurre» non è sinonimo di «fare versioni». Una versione, che è in genere un artificioso repertorio di regole e irregolarità grammaticali, la si può azzeccare anche senza tradurla, cioè senza capirla veramente. Intanto, a sorpresa, le iscrizioni ai licei classici sono aumentate dello 0,5 per cento. Gli studenti sono ora il 6,6 per cento del totale: meno di dieci anni fa, ma più degli ultimi cinque anni. Il classico resiste, soprattutto grazie al lavoro eroico di molti insegnanti, maltrattati dal ministero e svillaneggiati dagli opinionisti. E va salvato, non c’è dubbio. Ma va salvato anche dai suoi difensori troppo zelanti.