Incentivo alle assunzioni: una beffa per 30 mila imprese
Incentivo alle assunzioni: una beffa per 30 mila imprese
Adue anni dal via, il dibattito sull’utilità degli sgravi per le assunzioni a tempo indeterminato dovrebbe cambiare tono, passando dagli effetti (contestati) sull’occupazione al caos amministrativo su cui si basato. L’amara novità è toccata con mano da quasi 30 mila imprenditori, che dopo aver utilizzato quell’agevolazione si trovano a fare i conti la burocrazia italiana. La loro colpa? Essersi fidati delle informazioni ricevute dai Centri per l’impiego delle loro regioni.
Per ottenere gli sgravi, la legge di Stabilità del 2015 richiedeva infatti che il lavoratore assunto non avesse avuto contratti a tempo indeterminato nei sei mesi precedenti, condizione in mancanza della quale chiunque avrebbe potuto licenziare e riassumere incassando lo sgravio senza aumentare l’occupazione stabile. Presa questa precauzione, tutto avrebbe dovuto filare liscio, se non fosse per la sostanziale impossibilità di acquisire notizie certe sui contratti precedenti di un lavoratore.
Un tempo sarebbe stato facile. Bastava controllare nel libretto di lavoro, che però è stato abolito nel 2002. Da allora l’unica strada è rivolgersi ai Centri per l’impiego, i soggetti pubblici che dalla riforma del Titolo V della Costituzione (quella che ha introdotto i principali elementi di federalismo, nel 2001) sono stati affidati alle Regioni, insieme con le competenze sul collocamento. E poiché le banche dati regionali non sono mai state unificate, per sapere con certezza se e dove una persona ha lavorato in passato occorrerebbe rivolgersi ai Centri per l’impiego di tutte e 20 le regioni, con l’aggiunta delle province autonome. In totale: 22 domande. Cosa che chiaramente nessuno fa.
Ed è qui che è nato il problema, perché un certo numero di candidati all’assunzione non ha comunicato ai futuri datori di lavoro che nei sei mesi precedenti aveva già avuto un contratto a tempo indeterminato in un’altra regione, cosa che rendeva lo sgravio indisponibile. Lo ha certificato l’Inps con l’ultimo aggiornamento sul fenomeno fornito alla Fondazione Studi dei consulenti del lavoro, il 7 marzo scorso. Risulta da quei dati che su oltre 600 mila imprese che hanno fatto ricorso agli sgravi triennali ben 28.591 hanno sbagliato, presumibilmente senza colpa, assumendo persone che nei sei mesi precedenti avevano avuto contratti a tempo indeterminato con altri datori di lavoro. E ora si vedranno richiedere i
contributi che erano convinti di non dover versare, con l’aggiunta di una sanzione minima. In totale poco più di 154 milioni.
Oltre agli imprenditori che hanno sbagliato in buona fede ce ne sono altri che invece hanno fatto i furbi, licenziando e riassumendo le stesse persone per accedere indebitamente agli sgravi. Ma sono molti di meno: poche migliaia, per un totale di assunzioni fasulle che non arriva a 10 mila. È probabile dunque, anche se restano da esaminare diverse migliaia di posizioni, che le oltre 60 mila aziende che l’Inps dichiarò a maggio scorso di aver colto sul fatto siano in realtà molte meno, e che i 600 milioni che si pensava di recuperare al bilancio pubblico vadano alquanto ridimensionati.
Tutto questo si poteva evitare? «Prima del varo del provvedimento» dice a Panorama il vicepresidente del Consiglio nazionale dei consulenti del lavoro Vincenzo Silvestri «avevamo segnalato al governo che prima bisognava mettere in rete le banche dati dei Centri per l’impiego. Ma nessuno ci ha dato retta». Le conseguenze pratiche di questa dimenticanza sono ben descritte da Claudio Della Monica, titolare di uno degli studi di consulenza del lavoro più conosciuti di Milano. «In assenza di una banca dati integrata» spiega «i consulenti delle imprese dovrebbero trasformarsi in segugi, per scoprire se il lavoratore ha avuto un contratto a tempo indeterminato in un’altra regione o in un’altra provincia».
A questa assurda situazione sta cercando di porre rimedio l’Anpal, ente che coordina dall’inizio del 2017 i Centri per l’impiego di tutta Italia. «Entro la fine dell’anno» dichiara il direttore generale Salvatore Pirrone «contiamo di creare una banca dati unica». Se riuscirà a mantenere l’impegno una grave stortura sarà eliminata, ma ovviamente per il futuro. Chi si trova oggi in mezzo al guado dovrà arrivare dall’altra parte a spese proprie, ossia pagando le migliaia di euro di contributi che pensava di aver risparmiato. Possibilmente senza licenziare i nuovi assunti.