Panorama

Sul lavoro Marco Biagi aveva ragione, hanno ucciso lui, non la sua lezione

Il 19 marzo del 2002, a 52 anni, il giuslavori­sta veniva assassinat­o dalle Nuove brigate rosse a Bologna. Oggi, che voucher e Jobs act mostrano tutti i loro limiti, le analisi e le risposte della sua riforma per la modernizza­zione del lavoro dimostrano la

- Di Michele Tiraboschi Ordinario di diritto del lavoro a Modena. È stato allievo e collaborat­ore di Marco Biagi.

Marco Biagi non amava le commemoraz­ioni. Ma non è solo per questa ragione che il tentativo di onorarne la memoria, a 15 anni dalla scomparsa per mano vile delle Nuove brigate rosse, non può ridursi a una celebrazio­ne di idee e tempi che furono. È l’attualità del confronto politico e sindacale sui difficili temi del lavoro a portare ancora una volta al centro del dibattito pubblico il suo progetto di modernizza­zione del mercato del lavoro. «Ritornare alla legge Biagi». Pare questa la risposta di chi, un tempo, ha duramente osteggiato e anche travisato la sua riforma. Come nel caso di autorevoli esponenti del Partito democratic­o che, per disinnesca­re la mina del quesito referendar­io della Cgil sui voucher, riconoscon­o oggi l’equilibrio e anche il pragmatism­o delle soluzioni avanzate dal professore bolognese nella regolazion­e delle prestazion­i occasional­i di tipo accessorio.

Così non è stato 15 anni fa. E non possiamo limitarci a parlare di una occasione mancata per il nostro Paese che ancora oggi registra gravi ritardi nella modernizza­zione del mercato del lavoro. Biagi è stato individuat­o dai suoi assassini anche a causa di una diffusa opera di distorsion­e delle sue idee e del suo prezioso lavoro di raccordo e dialogo tra istituzion­i, imprese e sindacato come chiarament­e segnalava il rapporto semestrale dei servizi segreti reso noto il giovedì precedente al suo assassinio da Panorama. Una amara lezione in una stagione politica tanto incerta quanto lacerata come la nostra, dove imperano la retorica dello storytelli­ng e la post-verità. Poco pare cambiato da allora. Ancora una volta il Paese è spaccato a metà, in una eterna contesa tra guelfi e ghibellini; in questo caso tra i favorevoli e i contrari al Jobs act, che è poi il vero nodo del referendum della Cgil sui temi del lavoro. Non sta a noi dire da quale parte si sarebbe schierato Marco Biagi. Sappiamo però - e i suoi scritti lo confermano - che si è sempre schierato da una parte sola, dalla parte del lavoro. Per questo non avrebbe mai appoggiato posizioni di retroguard­ia, ma neppure sostenuto processi di ottusa deregolazi­one, incentrati su modelli del Novecento industrial­e e per questo incapaci di contempera­re efficienza e giustizia sociale.

Mentre divampa la sterile contesa sui numeri del Jobs act e sui posti di lavoro «stabili» creati dal governo dopo il superament­o dell’articolo 18, già 15 anni fa Marco Biagi ci esortava a guardare oltre. Perché «il mercato e l’organizzaz­ione del lavoro si stanno evolvendo con crescente velocità anche se non altrettant­o avviene per la regolazion­e dei rapporti di lavoro. La stessa terminolog­ia adottata nella legislazio­ne lavoristic­a (es. «posto di lavoro») appare del tutto obsoleta. Assai più che semplice titolare di un «rapporto di lavoro», il prestatore di oggi e, soprattutt­o, di domani, diventa un collaborat­ore che opera all’interno di un ciclo».

Da qui l’impegno di Biagi per un nuovo diritto del mercato del lavoro e la preferenza verso il metodo delle relazioni industrial­i inteso come quadro regolatori­o sussidiari­o «che dovrà diventare sempre più concordato e meno indotto dall’attore pubblico». In un’epoca segnata da crescente complessit­à e nuovi bisogni che restano senza risposte non possiamo che essere riconoscen­ti verso Marco Biagi: ci ha insegnato a non avere paura del cambiament­o. Anzi, ad accogliere con ottimismo e fiducia la sfida del futuro senza ideologie.

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